Il miracolo a lungo atteso si è compiuto: dopo quasi due anni di imperdonabile clausura distributiva, con gli adepti al culto di Paul Verhoeven serrati in religiosa attesa dell’annunciazione di un’uscita italiana sempre più improbabile, dal 2 marzo la benemerita Movies Inspired porta finalmente nelle nostre sale Benedetta (2021), presentato in concorso al 74° Festival di Cannes e puntualmente bollato con l’etichetta trita e facilona del film-scandalo: un’aura di sensazionalismo grossolano (presunto quanto ingiustificato) che le opere del regista olandese fanno da sempre fatica a scrollarsi di dosso, causa una cronica e superficiale chiacchiera mediatica che se da un lato solletica pretestuosamente le antenne pruriginose e i basic instincts del pubblico, e in qualche modo fa il gioco dei suoi film, dall’altro non riesce a rendergli giustizia in una più fondata e pertinente ricezione critica. Da parte nostra – forti della comprovata fede nel potere dissonante, dissacratorio e iconoclasta delle immagini eterodosse e fascinosamente respingenti di Verhoeven, mai appiattite sul (buon) gusto conforme alla sensibilità dominante -, anche in Benedetta crediamo invece di riconoscere una volta di più le stimmate del grande regista, devoto soltanto a un anomalo e irriducibile anticonformismo che all’oggi è una gradita rarità.  

GLI STRANI AMORI DI QUELLE SIGNORE

Per il suo sedicesimo film, Verhoeven parte da un saggio della storica Judith C. Brown (Atti impuri. Vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento, 1987, edito in Italia da ES) per rileggere a suo modo – con l’apporto in sceneggiatura di David Birke, già autore dello script di Elle (2016), in sostituzione, per divergenze creative, dello storico sodale Gerard Soeteman – l’enigmatica figura di suor Benedetta Carlini (una folgorante e trasognata Virginie Efira), ricca figlia di possidenti toscani che, agli inizi del Seicento, grazie a una cospicua dote paterna, entra ancora bambina come novizia nel convento delle monache teatine di Pescia (gli esterni sono in realtà filmati nei borghi di Montepulciano e Bevagna), sulla scorta di una fama di supposta miracolata, che la vedrebbe fin dalla nascita in contatto privilegiato col divino, e in particolar modo con la Santa Vergine Maria. Cresciuta nella vocazione all’Altissimo, Benedetta è ossessivamente preda di visioni ed epifanie religiose, che ne rafforzano il magnetismo carismatico turbando la quiete e gli equilibri di potere del convento, fino allo scandalo della lussuriosa relazione che nasce tra la donna e la più giovane consorella Bartolomea (una Daphné Patakia da cui grandi occhi scaturisce purezza innocente e irresistibile malizia con uguale intensità): Benedetta è realmente una santa illuminata dalla volontà divina o solo un’astuta e fasulla manipolatrice

Dopo l’algida e impenetrabile freddezza anaffettiva della Michèle di Elle, Verhoeven tratteggia nel fragile autocontrollo maniacale e nella subdola pulizia angelicata e sibillina del volto di Benedetta un altro ambiguo, sfuggente e indecifrabile personaggio femminile, magistralmente fuori norma e fuori canone, di umana imperscrutabilità nelle azioni e reazioni incomprensibili al senso comune; e di sottile cinismo mascherato da compassione, nel suo imporsi – ed essere riconosciuto – come insostituibile perno (im)morale di una congrega di proseliti-parassiti e comprimari-burattini (in Elle famiglia, amici e amanti di Michèle, per Benedetta monache e vicari religiosi) che gravitano attorno all’aura dell’idolo invaso di luce fungendo semplicemente da pallido riflesso del suo candido e sfrenato narcisismo («Puoi specchiarti nei miei occhi», intima Benedetta avvicinandosi seducente al volto di Bartolomea, che accuserà l’amante-matrigna di amare solo e soltanto se stessa).

CORPO SACRO, ICONA PROFANA

Verhoeven, da convinto profeta sensista e teologo laico qual è (leggere, per credere, il suo apocrifo saggio demistificatore L’ uomo Gesù. La storia vera di Gesù di Nazaret, Marsilio, 2010), per mezzo di immagini crude, vivide e sensualmente violente, in un barocchismo visionario e filologicamente grottesco, (s)centrato sull’impudico e tremebondo santino discintamente incarnato da Benedetta, si fa energico e rapsodico pittore di turgide glorie e insopportabili agonie di una fenomenologia del divino (amore) sfacciata e iperrealista. Dove apparizioni senza veli e intercessioni invisibili, miraggi ultraterreni e appetiti sessuali dell’eretica ed erotica blessed Virginie trascolorano senza soluzione di continuità nella trasparenza nitida e solare, nella spessa e rozza consistenza materica di un rigoroso dipinto ecclesiale sfregiato con gli schizzi di un gustoso fantasy-kitsch medievale immerso in un naturalismo en plein air

Una paradossale dichiarazione di agnosticismo visuale («Un peccato non è tale se nessuno lo vede», diceva con furbizia machiavellica la sfuggente pulzella Agnes nel L’amore e il sangue [Flesh+Blood, 1985]: vale forse lo stesso – dal profano al sacro, e ritorno – per segreti, miracoli e stimmate di Benedetta?). La vana e impossibile trascendenza delle icone che rimangono al di qua del loro senso ultimo e rivelatore, impiastrate della sola forza allusiva e dell’impatto di suggestione che le immagini sono in grado (?) di generare, di indurre, ma non di mostrare inequivocabilmente. Un punto cieco (come acceca il Male indotto da Satana, in vetsi di orbo cavaliere), una preghiera di fede al buio e un anelito alla salvezza che restano incistati nella carne e nel sangue, nell’ardore passionale e nel supplizio della tortura, nelle piaghe purulente e nella caducità di un mondo deperibile, disgraziatamente troppo umano, laido, barbaro e terragno per accedere davvero alla promessa del regno divino. 

LA CARNE, IL SANGUE E LA FEDE

Come in un’assunzione al cielo di segno rovesciato, che ricade inevitabilmente nelle sotterranee pulsioni tentatrici (nella messa in scena teatrale della beata Vergine, Benedetta è un corpo in moto ascensionale che si vorrebbe morto nella pace dei sensi, in pura astrazione celestiale, quando è invece roso da spasmi incontrollabili e piedi tremolanti, ancorato alle convulsioni e alla fisicità del desiderio), Verhoeven trasla l’inaccessibile, inconoscibile, irrappresentabile dimensione del sacro in una lucida e fiammeggiante parabola mondana e profana di affermazione e sopraffazione dei corpi, vulnerabili ed estatici, desideranti e macilenti, che lottano violentemente per il possesso, il controllo e il dominio di sé e degli altri, preludio all’impietoso giudizio universale in forma di una mortale pestilenza che rischia di non risparmiare nessuno. Colpisce e lascia profonde ferite l’immagine di Benedetta dinnanzi a una sorta di effigie in live-action del Cristo in croce senza i genitali, che la invita ad accogliere senza vergogne e pudori alcuni la nudità del corpo portato alla vista, esposto allo sguardo e al contatto. Una posa che richiama esplicitamente quella dello scrittore cattolico protagonista dell’erotic-noir hitchcockiano Il quarto uomo (1983) – altra figura verhoeveniana ossessivamente tormentata, come Benedetta, da oniriche visioni della Vergine -, laddove vedeva nel Cristo l’attrazione fatale per un giovane amante a cui sfilare gli slip rossi, simbolo della tensione irrisolvibile tra voluttà lussuriosa e un sofferto senso di colpa autoinflitto: lo stesso dilemma di Benedetta, circuita tra la beautitudine dell‘eros e la condanna alle lacerazioni del martirio.

Gli amplessi carnali con Bartolomea sono allora battezzati da sua eccellenza reverendissima Paul Verhoeven col benestare della grazia divina, come ne fossero sue esplicite rifrazioni, dal particolare all’universale: la turbinosa passione delle effusioni saffiche, con tanto di holy dildo, è noviziato sessuale verso la pienezza dell’amore totalizzante offerto in dote come sposa di Cristo. Se c’è una vera controriforma politica degli istinti mossa alla legge morale prescritta agli uomini e alle donne, Verhoeven la identifica, innesca, stravolge e risolve tutta nell’intimo isolamento del talamo. Per questo nel film non prende mai davvero corpo una vera opposizione etica ed estetica tra l’elevazione apollinea e spirituale del precetto religioso e il vortice estatico e irrazionale della passione sensuale: il godimento terreno – sommo gaudio e mortale peccato – è qui il primo viatico alla conoscenza e alla (falsa) costruzione di sé verso l’intercessione divina. Dal Vangelo secondo Paul Verhoeven. Amen, e così sia. 

Questo articolo è stato scritto da:

Daniele Badella, Redattore