TROUBLES E GRANDI SOGNI 

Dopo il giallo esotico Assassinio sul Nilo, con Belfast (Golden Globe alla miglior sceneggiatura, sette nomination agli Oscar 2022, e Premio del pubblico al Festival di Toronto e all’ultima Festa del Cinema di Roma) Kenneth Branagh ci trasporta nell’agosto del 1969, nei quartieri popolari della capitale dell’Irlanda del Nord al momento dello scoppio delle tensioni sociali note come i Troubles: gli scontri e la guerriglia urbana tra gli opposti estremismi di protestanti e cattolici. La storia, ricalcata sulla biografia di Branagh, segue la vita nel quartiere di Buddy (il simpatico esordiente Jude Hill), un vivace bambino di nove anni che sogna di diventare un giorno un grande giocatore di football, e di sposare Catherine (Olive Tennant), la scolaretta di cui si è invaghito. Pur sotto la pressione dei tumulti, con la premurosa famiglia che arranca tra incertezze lavorative e il peso dei debiti da saldare, le giornate di Buddy trascorrono gioiose tra giochi in strada, compiti in classe e scorribande malandrine, film alla Tv e gite all’amato cinematografo. 

Fin dall’incipit, Branagh concede un sincero omaggio alla sua città nativa: sulle note di Down to Joy di Van Morrison, il montaggio descrive una galleria di vedute a colori della Belfast di oggi, suggestivo ibrido tra il solido retaggio del passato industriale (le gru e i giganteschi cantieri navali dismessi, dove venne forgiato il Titanic) e la riqualificazione moderna del paesaggio architettonico, fra palazzi svettanti, treni sopraelevati, musei e installazioni artistiche. Finché la m.d.p. si sofferma davanti a un tipico mural cittadino – raffigurante un gruppo di operai navali -, per compiere, con letterale “scavalcamento di campo”, un salto temporale dall’altra parte del block, dove si anima la Belfast in bianco e nero del 1969, dando il via alla narrazione vera e propria: un morbido pianosequenza ci immerge fra la calca e il brusio dei passanti, in strade accoglienti e calorose come un grande cortile domestico, prima del sopraggiungere dei rivoltosi. 

ESSERE (O NON ESSERE) KENNETH BRANAGH 

Con questo film Branagh si fa letteralmente “più piccolo”. Rinuncia agli onori di primattore e accantona momentaneamente le due anime caratteristiche che lo hanno imposto come una presenza rilevante del cinema contemporaneo: la veste del grande drammaturgo teatrale e cantore dell’èpos shakespeariano, e la solida autorship di alfiere del blockbuster di lusso, conseguita con le incursioni nel canone Marvel-Disney (Thor nel 2011 e Cenerentola nel 2015), e con gli eleganti adattamenti ad alto tasso spettacolare dell’Agatha Christie Universe di sua creazione. Più introspettivo, intimo e ristretto, anche nelle ambizioni, Belfast si inserisce nel filone del sentito amarcord-memoriale, oggetto di varie declinazioni nel cinema degli ultimi anni (pensiamo a Dolor Y Gloria di Almodóvar, o a Roma di Cuarón), incentrato sulla rievocazione nostalgica di ricordi e sentimenti che esplodono correndo accanto ai grandi sommovimenti sociali e politici sullo sfondo. 

Ripercorrendo un periodo buio e cruciale della Storia della patria natìa, Branagh non si pone con impeto infiammato e militante sulla questione nordirlandese, come farebbe il cinema civile e politico di Ken Loach (L’agenda nascosta, 1990) o di Jim Sheridan (Nel nome del padre, 1993), né si concentra sul realismo documentario del Paul Greengrass di Bloody Sunday (2002) o sugli sfaccettati incroci di identità private e collettive di Neil Jordan (La moglie del soldato, 1992). Ciò non significa che il regista attenui distrattamente o minimizzi con disinvoltura un terremoto sociale ben radicato nella sua memoria, e anzi rappresentato con senso di latente minaccia nel quotidiano. Semplicemente, in Belfast, tutto viene scoperto e filtrato dallo sguardo vergine e perplesso, acerbo e altalenante dell’infanzia, che mette a fuoco il mondo attraverso gli occhi disorientati e stupefatti di un ragazzino attento e sensibile, che prova a capire – senza comprendere del tutto – la violenza discriminatoria a cui assiste da spaventato spettatore (emblematica la panoramica che ruota intorno a Buddy fermo al centro della strada, mentre osserva la comparsa dei teppisti in fondo al vicolo). Branagh coglie la caotica irruzione della brutalità del reale come repentina caduta dalle nuvole dell’immaginazione senza freni, una brusca e prematura perdita dell’innocenza: la madre di Buddy (la splendida Caitríona Balfe) si fa scudo dai sassi scagliati sulla folla con lo stesso coperchio usato dal bambino per scacciare i draghi di fantasia. 

BUDDY GOES TO THE MOVIES

È solo al cinema che l’evasione resta possibile, con Buddy e la sua famiglia che sobbalzano sulle poltrone, talmente rapiti dalle immagini che quasi si arrampicano dentro lo schermo, come la cameriera della Rosa purpurea del Cairo (1985) di Woody Allen. Branagh omaggia la magia luminosa della sala con un fitto apparato di schegge cinefile: Citty Citty Bang Bang (Ken Hughes, 1968), Mezzogiorno di fuoco (Fred Zinnemann, 1952), Un milione di anni fa (Don Chaffey, 1966) con la sensuale amazzone Raquel Welch, L’uomo che uccise Liberty Valance (John Ford, 1962), la sigla di Star Trek e l’immaginario spaziale del post-allunaggio in Tv. Ancorandosi al potere immaginifico del cinema come rifugio dalle difficoltà della vita, nello splendore dei colori squillanti che risaltano sul bianco e nero della realtà in chiaroscuro. La fotografia limpida e smagliante di Haris Zambarloukos, un digitale ricco di sfumature e mai artefatto, sembra seguire il continuo rivolgersi del cielo d’Irlanda tra scuri nuvoloni e soleggiati raggi di lucentezza, rifrangendosi tra le drammatiche zone d’ombra e gli accecanti bagliori di romanticismo e speranza che si accendono nella storia: Buddy raccoglie fiori di campo immersi in un mare di luce per la sua innamorata, eterea apparizione in chiarissimi capelli biondi, osservata timidamente a distanza e finalmente approcciata.

In alcuni passaggi, il regista rimette in scena in modo personale le atmosfere e gli stilemi dei grandi generi classici, flirtando con la commedia-musical popolare (mamma e papà di Buddy che ballano in strada come Fred Astaire e Ginger Roberts, l’esibizione canora da dance hall su Everlasting love dei Love Affair) e attingendo dal western hollywoodiano, rivisitato nelle inquietudini del caos senza legge dei tafferugli urbani, con il climax nel duello nella main street tra il padre di Buddy (un protettivo Jamie Dornan, in una prova matura) e il capo dei ribelli: un serrato montaggio di primi piani fordiani e leoniani sui contendenti, con il tempo dei gesti rallentato e dilatato al tempo stesso, l’indugio sui dettagli (la pistola), l’inquadratura dall’alto sull’arena della sfida, conclusa in un amorevole afflato umanista nell’abbraccio di gruppo della famiglia (a cui si unisce l’amica di Buddy, rimasta sola in strada), che ricorda molto la scena finale in spiaggia in Roma di Cuarón. In sottofondo, il celebre motivo musicale (Do not forsake me di Tex Ritter) di Mezzogiorno di fuoco, lo stesso tema sonoro col quale Branagh raccorda Gary Cooper in solitaria nella via deserta all’anziano uomo con la torcia in mano che fa la guardia nella strada notturna. E sul retro della casetta di mattoni, come in una vecchia livery stable, il nonno (Ciarán Hinds) lucida la sella citando a Buddy i versi del dubliner William Butler Yeats (“a pity beyond all telling is hid in the heart of love”). 

STORIA DI CHI PARTE E DI CHI RESTA

Il cinema è ponte e legame tra le generazioni: la nonna (Judi Dench), in gioventù appassionata di film come Buddy, confessa una malinconia per un vortice di illusioni che per lei, sfortunatamente, non si è mai trasformato in una vera via di fuga dagli stenti patiti, verso l’ideale Shangri-La che realizzi concretamente i sogni (americani) inseguiti sullo schermo (il riferimento è a Orizzonte perduto di Frank Capra, 1937). Questo sarà invece il destino di Buddy, alias il giovane Branagh. “Per quelli che sono rimasti. Per quelli che sono partiti. E per tutti quelli che si sono persi”, recita la dedica. E, ci permettiamo di aggiungere, per tutti quelli che, come Branagh, hanno attraversato il portale del cinema senza più voltarsi indietro. 

Belfast non è un capolavoro come reclamizzano gli strilloni del trailer, ma un’opera onesta e sentita che cerca di arrivare in modo trasparente al cuore e alla commozione del grande pubblico (e alla statuetta dorata?) senza cedere a troppi ricatti. Ciò che un po’ disperde in tenuta complessiva e respiro unitario del racconto, guadagna nell’accogliente polifonia frammentata di scorci di vita e quadretti domestici di personaggi ben accordati e intonati al mood della storia, che sprizzano empatia, comprensione e vitalità come i versi di una ballata dolceamara: gli allegri e malinconici pezzi di Van Morrison, vero controcanto poetico del film – che ne amplifica l’autoctono spirito irish -, compongono le tracce di un malinconico jukebox affettivo. Di fronte al bivio esistenziale che angoscia Buddy, tra la retta via e il tortuoso sentiero della perdizione, la musica prova a illuminare la “bright sight of the road” in mezzo alle strade dell’inferno.

Caldamente consigliata, laddove possibile, la visione in versione originale sottotitolata, per apprezzare al meglio le sfumature linguistiche dell’accento irlandese. 

Questo articolo è stato scritto da:

Daniele Badella, Redattore