Being the Ricardos sembrava il film perfetto per Aaron Sorkin: lo sceneggiatore premio oscar per The Social Network ama sviscerare la psicologia di figure fondamentali della storia americana, e ama pure portare i suoi spettatori “dietro le quinte” delle grandi istituzioni culturali, che siano lo studio ovale di The West Wing, una delle più grandi aziende informatiche in Steve Jobs o di uno studio televisivo. Being the Ricardos, appunto, sembrava l’unione perfetta tra questi due lati della sua poetica: la biografia umana e sentimentale di Lucille Ball, star della televisione americana negli anni ‘50 sulla cresta dell’onda grazie alla sua sitcom I Love Lucy (in italia trasmessa dal 1960 come Lucy ed io), e il processo creativo e produttivo che porta alla realizzazione di un episodio. Eppure, il risultato è di molto inferiore alla somma delle sue parti.
Il film è la cronaca di una settimana nelle turbolente vite di Lucille Ball (Nicole Kidman) e Desi Arnaz (Javier Bardem), all’apice delle rispettive carriere grazie a I Love Lucy e della loro love story personale, entrambe messe a durissima prova dalle accuse di simpatie comuniste rivolta all’attrice e dallo scandalo mediatico che ne segue: nei cinque giorni che separano la lettura del copione di un nuovo episodio di I Love Lucy dalle riprese dell’episodio davanti a un pubblico dal vivo, Lucille Ball ripercorre la strada che l’ha portata da attrice in film di serie B a regina della televisione, facendosi strada tra gli ego maschili e le difficoltà nel rapporto con Desi Arnaz.
Un po’ come in Steve Jobs, la narrazione passa attraverso una segmentazione quasi geometrica del tempo del racconto: l’intreccio è scandito da quelle cinque turbolente giornate di produzione dell’episodio, intervallate da flashback e ancorate da una finta ricostruzione documentaria con l’intervista a tre dei comprimari che ricordano gli eventi di quella settimana.
Il maggiore pregio di Being the Ricardos sta nelle interpretazioni: lo scetticismo che ha accolto oltreoceano la notizia che Nicole Kidman avrebbe interpretato Lucille Ball, per quanto ingiusto, dimostra lo status di cui la “signora Ricardo” ancora gode nel cuore degli spettatori americani -meno in quelli nostrani-. Nicole Kidman non è ovviamente Lucille Ball, ma fa un ottimo lavoro nel riprodurre la sua particolare espressività durante le riprese dell’episodio e la sua puntigliosa scrupolosità dietro le quinte, mentre Javier Bardem è la spalla ideale; li supportano un cast di ottimi caratteristi, su cui spicca un J.K. Simmons magnificamente sopra le righe.
In sede di sceneggiatura è un Sorkin diverso dal solito: i suoi soliti dialoghi a raffica da screwball comedy ci sono ancora ma più pacati, frenati dalla curiosità per le sottigliezze psicologiche insite nella crisi di un rapporto di coppia. Eppure proprio per questo c’è qualcosa che non torna: frasi a effetto dal retrogusto artificioso, dialoghi ridondanti, battute già sentite, vezzi caratteristici dello stile di scrittura di Sorkin che in questo film risaltano in negativo, per la scarsità delle sue abituali battute a mitraglia. Se i dialoghi di Sorkin sono come musica, quella di Being the Ricardos è una musica con numerose stonature. È quello scarto tra realtà e racconto di cui si parlava prima: è difficile affezionarsi alle vicende rappresentate se tutto è artificiale, i personaggi sembrano manichini e la storia procede con un ritmo altalenante. È il problema di molti biopic: cercano di raccontare tanto, finiscono con il dire poco.
Al suo terzo lungometraggio da autore completo il più grosso difetto del Sorkin sceneggiatore sembra essere il Sorkin regista. Non che se la cavi male dietro la macchina da presa, la sua regia è elegante pur se convenzionale, con alcuni movimenti di macchina interessanti; ma è di un’eleganza un po’ rigida che, oltre a indicare ancora una certa acerbità nella gestione del mezzo, manca di una vera visione d’insieme. Ne ha -ancora- di strada da fare per diventare un regista al livello delle proprie sceneggiature, e anche a causa di un’estetica iper-patinata (fotografia di Jeff Cronenweth), una colonna sonora (di Daniel Pemberton) ridotta all’osso e un montaggio ordinario, conferisce al film un’atmosfera da soap opera più che da dramma sentimentale con inflessioni sociali.
Non mancano le suggestioni interessanti sull’egocentrismo, la capacità dell’arte di rompere le convenzioni e la pervasività dei media; solo alcune sono portate avanti con coerenza fino alla fine.
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