Ma che bella scelta quella di aprire l’81a edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con Beetlejuice Beetlejuice. È una scelta encomiabile perché a modo suo il film è inaspettatamente impavido e dimostra come Tim Burton, dopo una fase di carriera d’alti e bassi, ha capito come entrare in contatto con i nuovi spettatori senza snaturare di una virgola il suo cinema, potendosi dichiarare (probabilmente) riabilitato agli occhi del grande pubblico. È una scelta azzeccata anche perché Beetlejuice Beetlejuice sigla un’apertura che diverte ma ripugna, che sfrutta la nostalgia per guardare avanti, che trasuda amore per il cinema ma mai snobisticamente, e che coerentemente con il titolo è due volte il suo predecessore, nell’ironia, nel grottesco, e più in generale nella visionarietà di Burton.

Beetlejuice e Lydia in una scena del film

Così come questo sequel arriva nei cinema trentasei anni dopo il cult del 1988, al comparire del titolo del film appare in allegato anche una targa con su scritto “2024 d.C” che si preoccupa di sottolineare l’anno d’ambientazione del film: siamo ancora a Winter River, dove beffardamente e specularmente all’incipit del primo film vi sono due morti, ma non più di una coppia di sposi bensì di due mariti,  la morte di Charles Deetz marito di Delia (Catherine O’Hara), e quella del marito di Lydia Deetz (Winona Ryder). Lydia deve affrontare anche la crescita della figlia adolescente e un po’ ribelle, Astrid (Jenna Ortega), oltre al subdolo pretendente alla sua mano Rory (Justin Theroux). Non c’è mai fine al peggio, perché un avvenimento che rischia di porre fine alla vita di Astrid costringe Lydia a ripetere tre volte il nome di Beetlejuice (Michael Keaton), liberando dall’Aldilà lo spirito dispettoso che, inseguito a sua volta dall’ex moglie defunta e succhia-anime Delores (Monica Bellucci), accetterà il compito ma solo su promessa di Lydia di ricongiungersi in matrimonio con lui.

Jenna Ortega torna a collaborare con Burton dopo la serie targata Netflix “Mercoledì”

Nel parlare di Beetlejuice Beetlejuice conviene partire dal fattore temporale, quello marcato dalla targa sopracitata, e occorre partire da questo per due motivi, che come molte altre volte sono semplicemente quello filmico – della trama – e extra-filmico – del contesto cinematografico e culturale in cui il sequel si cala. È pressoché impossibile affrontarli in sedi separate perché sono strettamente interconnessi: il plot di base consiste in tre donne che corrispondono a tre diverse generazioni (Delia che è madre di Lydia che è madre di Astrid) e che però devono affrontare lo stesso trauma, il lutto. Sono morti due mariti che erano anche due padri, e le tre donne rappresentano tre diversi modi di affrontare il trauma. Delia si affida alla superstizione eseguendo patetici riti religiosi sulla tomba del defunto, Lydia spera invece di lucrare sulla superstizione del pubblico televisivo diventando la conduttrice di Ghost House, uno dei tanti programmi di caccia ai fantasmi popolari in tv, e Astrid? La ragazza in pieno stile Gen-Z è molto più cinica sia dei Boomer (Delia) che della Gen-X (Lydia), e alle pagliacciate televisive della madre preferisce l’attivismo, abbracciando la causa ambientalista sulla spinta della scomparsa del padre, scomparso improvvisamente nel bel mezzo della foresta amazzonica. Ciò che resta dei Deetz è quindi una famiglia matriarcale? Non proprio, perché il Maschio è duro a morire: ci sono ben due nuovi aspiranti mariti di Lydia che cercheranno di darle tormento sia nell’Aldiquà che nell’Aldilà; ma il morbo di quello che oggi prende il nome di amore tossico non lascia pace nemmeno a chi ha già vissuto il trapasso, perché lo stesso Beetlejuice deve coprirsi le spalle dall’ex fidanzata Delores che incapace di arrendersi alla fine del loro amore cercherà in ogni modo di ricongiungersi col marito succhiando le anime di chiunque le si pari davanti. C’è la possibilità che uno si perda in mezzo a questi intrecci di lutti, richieste di matrimonio e amori perversi, ma mica male per un film di spiritelli porcelli, non è vero? Infatti, prima di ogni altra cosa, è in questo che il film di Burton vince, nel non ripetere pedissequamente le orme del primo film per adattare invece l’identità di Beetlejuice all’anno domini che evidenzia sin da subito.

Una delle coppie di personaggi più riuscite viste ultimamente: l’impiegato Bob e il poliziotto Wolf Jackson

Giustamente torna anche qualche vecchio stilema, come la canzone Banana Boat (alle musiche c’è sempre il compositore Danny Elfman), ma dentro un gioco con la nostalgia che guarda sia dentro che fuori da Beetlejuice: è rievocata più volte la stessa storia del cinema, con cenni citazionisti mai fini a sé stessi ma che permettono alla narrazione di progredire (si segnala un bellissimo omaggio a Mario Bava), oppure grazie al memorabile poliziotto interpretato da Willem Dafoe che, deceduto dopo una carriera da attore, mantiene la verve artistica anche all’interno dell’apparato statale dell’Oltretomba (Keep it real!, ripeterà continuamente).

E poi c’è tutto Burton, la materialità della messinscena, l’animazione in stop motion utilizzata non solo per le creature bizzarre (tornano anche i memorabili Vermi della sabbia di Herbertiana memoria) ma anche per rappresentare le morti di alcuni personaggi, e ovviamente la visionarietà gotica che approfondisce molto anche il mondo dei morti, con la sua burocrazia e i suoi abitanti comicamente ributtanti. Beetlejuice Beetlejuice è anche Burton Burton, perché i tratti del suo cinema strabordano, invadono ogni frame, e infatti il film non è perfetto, alcuni personaggi (come quello di Delores) hanno una caratterizzazione piuttosto superficiale e soccombono sotto un intreccio che mette molta carne sul fuoco: Beetlejuice Beetlejuice in fin dei conti è slabbrato, forse meno calibrato del suo predecessore, ma questo sentore di tracotanza non è mai dannoso, tutto il contrario, è guidato dall’entusiasmo di un regista che ha ritrovato il suo posto nel mondo (produttivo, culturale, ideologico) e che vuole urlarci col megafono “eccomi qua! sono tornato!”. E noi possiamo soltanto dargli il nostro bentornato.

Il film uscirà al cinema il 5 settembre distribuito da Warner Bros. Italia.

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Redattore.