L’idea alla base di Beau ha paura circolava nella mente di Ari Aster già da prima che realizzasse i precedenti Hereditary e Midsommar. Beau è il titolo di un suo cortometraggio horror datato 2011, ambientato in un condominio e parziale ispirazione per parte del primo atto del nuovo lungometraggio prodotto per A24. Inizialmente in sviluppo con il titolo Disappointment Blvd., condivide con quello – e con l’altro corto Munchausen – una narrazione marcatamente soggettivistica costruita sull’esplorazione senza freni del lato più oscuro della psiche umana, direttamente dallo sguardo dei suoi personaggi.
«It’s like a jewish Lord of the Rings»
È difficile anche solo tentare di rintracciare un genere univoco – è un po’ thriller psicologico, un po’ commedia grottesca, un po’ avventura fantasy con appena una spolverata di elevated horror -, nell’odissea di Ari Aster ambientata in una caotica parodia del nostro presente. Se l’intreccio sfugge alle classificazioni e confonde realtà e immaginazione, passato e presente, esagerazioni ansiogene e minacce sovrannaturali, la storia è in realtà assai lineare: il viaggio di un uomo, Beau Wasserman, diretto al funerale di sua madre, impedito da contrattempi reali o meno.
Ma l’Odisseo contemporaneo interpretato da Joaquin Phoenix (nella sua forma più miserabile e patetica) è un nevrotico e complessato di mezza età, prigioniero delle proprie ansie nonché dell’ingombrante madre (la veterana di Broadway Patti LuPone). Il lutto si trasforma in un allucinato viaggio quando Beau si scontra con l’umanità derelitta del suo quartiere violento, finisce ospite forzato di una coppia di altoborghesi (Amy Ryan, Nathan Lane), viene adottato da una compagnia teatrale viaggiante fatta di soli orfani e si confronta per la prima volta con un mondo esageratamente ostile e, soprattutto, con sé stesso: il rimosso, l’inconscio, la memoria.
Viaggio nella foresta delle allegorie
Ma in fondo la storia o i personaggi, in Beau ha paura, non sono così importanti quanto la selva di simboli (l’acqua il più ricorrente), costruzioni immaginifiche, citazioni più o meno esplicite. Joyce, Tarkovskij, perfino Scorsese – gli incidenti nella sovraffollata metropoli di Beau ricordano le folli disavventure urbane del colletto bianco di Fuori orario –: c’è un po’ di tutto in questo immaginario colto e spesso di difficile decifrazione, fatto di allegorie stratificate e voli pindarici nella fantasia – compresa una biblica messa in scena che unisce live-action e animazione. Ma se il mondo esterno pullula di una folla di personaggi in continuo movimento, cambia e si deforma nelle mille sfumature della nevrosi, a non cambiare per nulla è proprio lui: Beau non si sposta di un millimetro dalla sua prigione mentale, esistenziale, psicologica.
Le letture psicanalitiche si sprecano, ma più che a Edipo il viaggio nella notte di Beau rimanda al mito di Giona. Rielaborazione parodistica la cui madre è allo stesso tempo Yahweh che lo mette alla prova e la balena che lo inghiotte, il centro assoluto di devozione e odio.
La più grande avventura
Al termine delle quasi tre ore di durata, si può quantomeno commendare il coraggio di un autore che, al terzo lungometraggio importante, abbandona le più familiari atmosfere horror per buttarsi nella sperimentazione a briglie sciolte. Coraggio che va a nozze con una casa di produzione come la A24 che sul cinema d’autore eccentrico ha costruito la sua fortuna. Beau ha paura è un viaggio epico e fuori dagli schemi, che rifiuta la soluzione facile, rischia spesso e inciampa altrettanto spesso.
La sensazione, infatti, è che Ari Aster abbia calcato un po’ troppo la mano nell’imbastire questo complesso racconto allegorico, e spesso sacrifica i personaggi sull’altare della metafora, del concetto. Questa ricerca della metafora sopra la costruzione dei personaggi coinvolge pure il suo stesso protagonista, schiacciato da un contesto fin troppo caricaturale per poter provare autentica empatia, se non di identificazione, nei confronti delle sue disavventure. Beau ha paura è orgogliosamente individualista, pretenzioso fuori misura e non del tutto riuscito. E va bene così: nel sempre più lungo elenco degli ambiziosi azzardi d’autore targati A24, la fantasia selvaggia di Ari Aster è uno degli esempi più ricchi d’inventiva.
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