Una lunga ombra si proietta sul terreno aspro e brullo. Con una manciata di balzi leggeri l’entità metafisica si libra nel cielo azzurro, sorvola dall’alto scorgendo l’orizzonte, poi ricade sulle sue zampe come un falco predatore. Un altro balzo, si vola ancora, si ritorna a terra. Ancora uno, solamente uno.
Inizia con un volo Bardo, la cronaca falsa di alcune verità, ultima fatica del pluripremiato regista Alejandro González Iñárritu. Presentato integralmente alla 79a edizione del Festival di Venezia (successivamente ha subito tagli per un totale di circa 15 minuti), è rimasto a corto di premi ma non di aspre critiche. Netflix ha annunciato la distribuzione internazionale a partire dal 16 dicembre: un mese prima, in qualche sparuta sala d’Italia, alcuni fortunati hanno potuto vedere il film sul grande schermo, thanks to la vecchia e cara casa di distribuzione Lucky Red.
È difficile scrivere di Bardo: non per la natura intrinseca del film, non per un qualche vago timore che si dovrebbe provare dinanzi alla maestria di uno dei più grandi registi contemporanei. Ma è difficile, poiché la visione di questo capolavoro – e sì, di capolavoro stiamo parlando! – è un’esperienza di rara arte cinematografica. Si entra in sala incuriositi e si esce affranti, perché si realizza che la magia è finita; l’ultima dissolvenza su quel deserto così lontano lascia spazio ai titoli di coda e alla febbricitante colonna sonora. Con Bardo siamo di fronte a un’opera totale, e chi scrive non ha dubbi nell’affermare che la sua piena comprensione non potrà avvenire che tra una manciata di anni.
L’ESISTENZA, UN FALSO MIRAGGIO
L’ultimo film di Iñárritu giunge in un momento particolare della sua riflessione artistica. Così come altri registi, anche il cineasta classe 1963 si ritrova a osservare la lunga strada già percorsa e il sentiero dell’avvenire che si profila dinanzi a sé. Ma a differenza dei suoi coetanei (Sorrentino, Branagh, Spielberg), Iñárritu non sceglie la via del film autobiografico in senso classico per elaborare le sue riflessioni esistenziali. Il concepimento di Bardo incrocia il passato e il presente di un cineasta che ha avuto la forza di lasciare il tormentato Messico e prendere per mano il Cinema nella terra che ha contribuito a crearne il mito fondativo. E nel raccontare questo percorso, Settima Arte, esistenza e sogno s’incontrano: il lungometraggio trabocca di onirismo mai fine a sé stesso, mai eccedente, seppur stravagante. All’inizio assistiamo a un “parto all’inverso”: il secondogenito del protagonista Silverio (Daniel Giménez Cacho) non intende abitare il mondo, e subito dopo il parto chiede di essere rimesso nella vagina della madre. Solo successivamente si apprende che il bambino è nato ed è sopravvissuto appena trenta giorni; l’elaborazione di questo lutto torna a più riprese, nel corso del film, fino allo struggente commiato finale. In un’altra sequenza, Silverio incontra il padre defunto nel bagno di una sala da ballo, e all’improvviso il suo corpo diventa quello di un bambino, mentre la sua testa rimane la stessa di adulto, di dimensioni addirittura sproporzionate.
Iñárritu non ha paura di raccontare i sogni, cosciente di come questi possano essere colmi di stravaganza e di assurdo: come lo è, d’altronde, l’esistenza stessa e, soprattutto, i ricordi che abbiamo di essa. Ciò che il regista ricerca è la capacità del cinema di restituire la forza delle emozioni, la quale è in grado di plasmare e distorcere vita, passato e sogni. Il sentire col cuore è la chiave che può permettere l’accesso all’intera opera. L’emozione, troppo spesso dimenticata da critici e cinefili, è imprescindibile in Bardo: il totale coinvolgimento permette la visione di quel miraggio che è la vita e il sogno così come sono stati interpretati da Iñárritu. Non è la ricerca della verità, del Senso a preoccupare il regista messicano: la sua indagine è emozione pura. Ma pur non ricercando il Vero, Iñárritu compone un’opera di senso in cui tutto torna e nulla è lasciato al caso: una coerenza che si riflette nella chiusura ad anello perfettamente elaborata.
¡VIVA MÉXICO!
Il giornalista e documentarista Silverio Gama ritorna in Messico dopo trent’anni di autoesilio. Ritorna perché i suoi concittadini vogliono celebrare quell’uomo d’impegno civile al quale verrà consegnato un prestigioso premio negli Stati Uniti, dove vive stabilmente insieme alla famiglia. Il suo viaggio dal gusto bergmaniano lo pone dinanzi alle proprie responsabilità verso la sua terra natale, ai timori rispetto a come verrà accolto dopo così tanti anni.
Certamente il viaggio di Silverio è il viaggio di Iñárritu: Bardo è il primo film, dopo Amores Perros (2000), ad essere totalmente girato in Messico, con cast e troupe locali. Il ritorno in patria innesca, inevitabilmente, la riflessione intorno al tema dell’immigrazione, dell’abbandono, delle radici mai dimenticate. Il contrasto fra Stati Uniti e Messico coesiste, in particolare, nel figlio Lorenzo (Íker Sánchez Solano), che parla alternando inglese e spagnolo nel corso di tutta la pellicola. Ma il confronto è anche nella bellissima scena di ballo al centro della narrazione: nel bel mezzo di canzoni dal gusto spagnolo, Silverio sente dentro di sé, per un breve istante, Let’s Dance di David Bowie, e balla da solo, in quel momento di solitudine in cui si sente più americano che messicano.
Il Messico è l’oggetto intorno al quale il regista elabora una profonda e sofferta riflessione. Messico è musica, famiglia, il sapore dell’anguria che sa veramente di anguria; ma è anche la piaga dei desaparecidos, il genocidio degli Aztechi, i conflitti armati con gli Stati Uniti. Passato e presente, nuovamente, s’intersecano ma a un livello non più microcosmico ma, bensì, macrocosmico. Silverio si ritrova nel mezzo di una guerra, scala una massa di cadaveri di Aztechi per intervistare il conquistador Hernán Cortés. Poi eccolo documentare una massa di migranti clandestini che tentano disperatamente di valicare il confine statunitense, affidandosi alle preghiere rivolte alla Madonna. Così facendo, Silverio/Iñárritu non negano il senso di inadeguatezza dinanzi agli orrori del passato e del presente: ambedue sentono intensamente il dolore che coesiste nella storia del Messico, restando, tuttavia, sulla soglia, rispettando quel dolore.
CRONACA FALSA DI ALCUNE VERITÀ
Silverio è Iñárritu: l’istrionico Daniel Giménez Cacho concede il proprio corpo per permettere al regista di esplorare le questioni che lo tediano. È un ritratto intimo ma mai autocompiacente: la consapevolezza della stravaganza è costante, e Iñárritu quasi anticipa i velenosi commenti dei critici attraverso la figura di un presentatore televisivo che non ha remore nel demolire alcune scene che abbiamo visto e che dobbiamo ancora vedere. Sì, perché Iñárritu non ha paura di giocare con la linearità temporale; anzi, la irride attraverso l’onirismo dilagante. E ciò avviene perché questa è, come è dichiarato nel sottotitolo, la “cronaca falsa di alcune verità”: Menzogna e Verità sono indistinguibili, perché ambedue interpretate attraverso il caleidoscopio dell’emozione. Ma d’altronde, è così necessario ricercare la verità? Così come dichiarato dal regista, «la narrazione che costituisce ‘la nostra vita’ non è molto più di un falso miraggio, composto da fatti percepiti in modo soggettivo dal nostro imperfetto sistema nervoso» (fonte: La Biennale). Allora ciò che resta da sondare è la verità dell’emozione: che è sì imperfetta, forse falsa, ma vera nella sua indefinitezza.
La vita, come il sogno, diventa dunque un volo leggero, un’esperienza da vivere appieno assecondando l’emozione più profonda. Il senso intrinseco di Bardo soggiace in questa capacità di lasciarsi condurre dall’emozionalità senza timore. Oltre il particolarismo delle vicende di Silverio, i significati universali tessono la trama di un film che ha il potere di parlare a chiunque: il senso di estraneità in patria; il desiderio di parlare con un genitore venuto a mancare; la riflessione sull’identità nazionale; il lutto inteso come la perdita di un caro o anche metafora di un’idea nata morta, che necessariamente dobbiamo lasciar andare; il sentimento del tempo che passa. Al valore della famiglia, in particolare, il regista dedica il suo sguardo dolce e rassicurante. Essa incarna il conforto, il divertimento, la comprensione più profonda: Silverio, a volte, non ha bisogno di muovere le labbra per poter esprimere ciò che sente; l’amata moglie, in particolare, riesce a sentire i suoi pensieri, incarnando la capacità della famiglia di comprendere anche i silenzi. Sono anche queste piccole ma sapienti metafore che arricchiscono la preziosità di una pellicola unica.
Iñárritu è riuscito a realizzare un capolavoro cinematografico purissimo ed elegante, un’opera perfetta e affascinante che non temerà, certamente, lo scorrere inesorabile del tempo.
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