Il punto di partenza consigliato per scoprire la vita e la carriera di Amy Winehouse è Amy (2015) di Asif Kapadia, un folgorante documentario realizzato con materiale found footage, il miglior modo per raccontare dall’interno la sfortunata vita di Amy Winehouse, dalla sua ascesa irriverente e fuori dagli schemi al suo prematuro epilogo, il 23 luglio 2011, causato da abuso di alcol, droghe e da anni di bulimia non curata.

Cosa può accadere se la regista di 50 sfumature di grigio (2015), Sam Taylor-Johnson, mette mano su del materiale così profondo e allo stesso tempo delicato? I problemi dei biopic contemporanei, sempre più frequenti in ambito hollywoodiano, sono la semplificazione, l’eccessiva mitizzazione, il trascurare le ombre dei personaggi presi in questione e, molto più spesso, il non riuscire a restituire l’anima dell’artista per via di una piattezza realizzativa, che rende un prodotto facilmente equiparabile all’altro.

A colpire in Back To Black (2024) è la scelta del focus adottato nel racconto. La sceneggiatura di Matt Greenhalg, non perfetta, caratterizzata da semplificazioni e dialoghi non sempre pienamente centrati, ha un enorme punto di forza: mettere al centro del racconto non la carriera, ma la vita privata di Amy Winehouse, restituendo a pieno l’indole dell’artista londinese, non disposta a farsi plasmare dall’industria, non interessata alla carriera o alla fama, ma alla costante e infruttuosa ricerca di una vita serena, fatta d’amore, affetti e semplicità.

I flash dei paparazzi che accecano Amy nel corso del film sono la rappresentazione grafica di una discesa della cantante verso meandri che non avrebbe mai voluto esplorare. Se da un lato si trova una ragazza dal talento innato e dalla voce inimitabile, che vede in sua nonna un modello da seguire, che ama il jazz e che dalla sua cameretta lascia trasudare il suo vissuto in canzoni destinate a rimanere eterne, dall’altro emerge tutta l’oscurità che la caratterizza: un rapporto disfunzionale di co-dipendenza con il fidanzato Blake, che la fa sprofondare nel vizio dell’alcolismo, cui si aggiungerà l’uso di sostanze, uniti a una bulimia di cui tutti sembrano consapevoli ma in merito alla quale nessuno sembra in grado di fare qualcosa per aiutarla.

Il tentativo di entrare nella dimensione privata di Amy Winehouse (è questo che differenzia il film in questione dal documentario del 2015 citato all’inizio della recensione, la cui visione risulta complementare a quella di Back To Black per comprendere le varie sfaccettature dell’icona) a volte si traduce in quadretti abbozzati o in sequenze di montaggio musicale non incisive, altre volte, come nel caso della genesi della canzone Back to black, riesce a unire il dolore per il lutto della fine di una relazione e della morte di una persona cara in modo convincente. Costumi, trucco e parrucco risultano efficaci, soprattutto quando in preda alle sue crisi i costumi sono stropicciati e unti, i capelli non in piega e il trucco colato.

L’attrice protagonista, Marisa Abela, non possiede fisicamente dei tratti capaci di replicare l’unicità del volto della cantante britannica, ma riesce comunque a dare giustizia allo spirito fuori dagli schemi della Winehouse, alle sue difficoltà e alla sua sofferenza. Il cast di contorno non spicca e alcune scelte di casting, come quella di Blake, interpretato da Jack O’Connell, non risultano pienamente centrate.

Regia, fotografia e montaggio non riescono a spiccare o ad emergere in modo dirompente dagli standard di prodotti simili, e sembra troppo poco considerando l’esuberante lavoro di Baz Luhrmann nel suo film dedicato a Elvis, incapace di restituire pienamente, per esempio, la tossicodipendenza dell’artista, ma perfettamente in grado di imprimere una forte identità cinematografica nella realizzazione del racconto. Sono pochi gli sprazzi in cui la regia riesce a restituire la turbolenza della vita di Amy e della sua relazione con Blake, mentre, in generale, non deludono le sequenze dei concerti.

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Alessandro Corrao,
Redattore.