Il teen cancer romance, la rom-com di adolescenti e giovani con malattie, è ormai un diffuso sottogenere della commedia drammatica contemporanea: dolci e accorate storie di formazione e love story precocemente azzoppate dalla scoperta della malattia o infermità di uno o più personaggi, per cui, spesso, il primo amore rischia di essere anche l’ultimo. Il tema è delicato e gli esempi diversi, con toni ed esiti alterni, tra l’approccio sincero, senza ricatti emotivi, e lo stucchevole piagnisteo melodrammatico. Si ha una buona panoramica del filone vedendo un pugno di film come 50/50 (2011) di Jonathan Levine, Now Is Good (2012) di Ol Parker, Quel fantastico peggior anno della mia vita (2015) di Alfonso Gomes-Rejon, Colpa delle stelle (2014) di Josh Boone (dal bestseller young adult di John Green), Il sole a mezzanotte – Midnight Sun (2018) di Scott Speer, e, ultimo arrivato, dalla Germania, Io rimango qui (2020) di André Erkau. Senza dimenticare i recenti epigoni italiani: Sul più bello (2020) di Alice Filippi e Sulla stessa onda (2021) di Massimiliano Camaiti.

Prova a sparigliare le carte del canone, dando una ventata d’aria fresca a stereotipi e lacrime facili, Babyteeth (2019), opera prima della regista australiana Shannon Murphy, adattamento dell’opera teatrale del 2012 di Rita Kalnejais (qui alla sceneggiatura), in sala dal 13 maggio dopo la presentazione alla 76ª Mostra del Cinema di Venezia (al co-protagonista Toby Wallace è andato il Premio Mastroianni come miglior attore esordiente).

La sedicenne Milla – una misurata e convincente Eliza Scanlen, già Beth March in Piccole donne di Greta Gerwig e in un piccolo ruolo nel thriller Le strade del male -, affetta da grave tumore, conosce per caso lo sbandato Moses (Toby Wallace), ventitreenne con cui entra in affinità a dispetto di background agli antipodi: per lei, nevrotica famiglia borghese con padre psichiatra (Ben Mendelsohn) e madre ex-pianista dipendente dagli ansiolitici (Essie Davis, abbonata al ruolo di genitrice sfibrata e scostante come in Babadook (2014) di Jennifer Kent); per lui, cacciato di casa e ripudiato dalla madre, vita da randagio tra droghe, furti e richieste di soldi. Il loro legame è però speciale, sostegno prezioso alla lotta di Milla e alla rifondazione di una nuova armonia familiare, sullo sfondo di una tragedia inevitabile.

Il film si apre sull’immagine simbolica e ingrandita di un dente insanguinato che affoga coreograficamente sul fondo di un bicchiere d’acqua: il dente da latte di Milla – a cui fa riferimento il titolo -, simbolo di un destino bloccato in un anacronismo, come in un loop temporale, in cui resiste il retaggio della fanciullezza ma, allo stesso tempo, è negato l’approdo alla maturità dalla condanna della malattia terminale.

Già dalla spiazzante irruzione di Moses – sconvolto outsider che pare scappato da un film di Xavier Dolan – alle spalle di Milla, sulla banchina della stazione, Shannon Murphy palesa subito uno spirito anarchico, fieramente marginale e anticonformista. Instradando il suo teen (mélo)drama dell’incontro di solitudini sui binari non lineari di un rapporto che procede a salti e singhiozzi, tra bruschi strappi e riavvicinamenti affettuosi. In una cornice narrativa libera ed episodica, incentrata sul frammento e sulla deviazione, che alterna spontaneamente, senza troppe ricadute, picchi drammatici e distensione emotiva, in brevi sequenze introdotte da didascalie a getto che incapsulano il mood emotivo: una parola, uno sfogo, un soliloquio notturno alla luna, l’indicazione di una stasi o di una svolta, la descrizione di un attimo o di una tonalità sentimentale. Utilizzando filtri e linguaggio stilistico del cinema giovanile, mobilità della camera addosso ai personaggi, canzoni a massimo volume al punto giusto, colori fluo e disco-stroboscopia. Senza insistere morbosamente nella pornografia del dolore, nel compatimento strappalacrime per Milla (con qualche eccesso appesantito solo nel finale).

Babyteeth va però oltre il recinto del teen drama: allargando i riflettori al disastrato mondo degli adulti, duplicando l’assortimento della coppia Milla-Moses nel tormentato ménage coniugale di Anna e Henry – i genitori della ragazza -, tenta di avvicinare le atmosfere, i comprimari weird, gli immaturi in crisi di mezza età, le pulsioni contrastanti e gli umori irrisolti di un certo cinema autoriale indie e mumblecore made in USA, traslocato nelle inquietudini borghesi e nella schizofrenia della suburbia australiana.

Senza impuntarsi troppo nello scontro generazionale – anche se i conflitti non mancano -, guarda con empatia, di fronte all’estremo dolore, a una convivenza orizzontale ed inclusiva, per quanto mal assortita. Mettendo tutti attavolati – il quartetto principale e gli ospiti variamente sradicati (l’insegnante di violino, la strampalata vicina di casa incinta, il ragazzino orientale senza dimora) a discutere in cucina o a festeggiare nell’arioso salotto new age dei Finlay, tra piante e pianoforte, quasi fossimo in una terrazza di Ozpetek, all’altro lato dell’emisfero.

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Daniele Badella, Redattore