Il più recente sforzo da regista di Damien Chazelle difficilmente sarebbe stato un film come tutti gli altri. Già dai trailer il suo quinto film da regista prometteva un cocktail di Viale del tramonto, The Wolf of Wall Street, Moulin Rouge!. E se questo paragone può sembrare azzardato, l’ambizione dimostrata in Babylon resta comunque innegabile. 

Damien Chazelle è profondamente innamorato del cinema. La passione che assumeva una dimensione da sogno in La la land, non idealizzata, non perfetta, ma cristallina, trova in Babylon un controcanto ideale, il rovesciamento completo della prospettiva. Se il musical vincitore (per due minuti e mezzo circa) dell’Oscar come miglior film era “dedicato ai folli e ai sognatori”, nella nuova Babylon di spazio per sognatori non ce n’è neanche un poco.

FESTA ITINERANTE A HOLLYWOOD

L’epica storia di Babylon segue una varia umanità di attori, produttori e parassiti tra le colline di Hollywood, dal tramonto del cinema muto all’alba dei talkies. Alla perpetua ricerca del successo e della realizzazione personale, c’è chi vuole realizzare qualcosa di indimenticabile, chi vuole essere una star e chi cerca semplicemente l’amore. Come da tradizione del regista, la ricerca della perfezione ha in nuce l’ascesa alle stelle e la brusca caduta nel fango.

Definirla una storia epica non è sbagliato. Damien Chazelle punta ai grandi temi, ai protagonisti larger than life: all’epica, appunto. Ma più che i personaggi, ciò che conta in Babylon è il confronto con la Storia, l’esplorazione di un’era irripetibile. E, allo stesso tempo, rifiuta qualsiasi romanticismo nel ritratto corale di un’epoca tramontata.

SVEGLIARSI DA UN SOGNO BELLISSIMO

Non c’è mistificazione, non c’è un sogno da raggiungere in Babylon, se non l’illusione del successo al costo di qualsiasi cosa. Compresa la propria anima. 

Come figure mitologiche o come i protagonisti immortali dei film che interpretano, gli eroi tragici di Babylon non cambiano, non evolvono, restano cristallizzati in un eterno presente che in realtà è già passato, e da protagonisti assoluti diventano senza accorgersene spettri di un’epoca lontana.

Come il titolo lasciava intuire – andare poco per il sottile è la caratteristica principale di Bablyon –, la Hollywood degli anni Venti non ha nulla di idilliaco. Lo sfondo su cui si muovono le vicende dei protagonisti è un concentrato di virtù (poche) e vizi, sogni e incubi, moralità e depravazione. Le persone in sé contano poco, a Hollywood: ciò che conta è quanto le loro individualità possano venire assimilate dall’industria. In un’epoca in cui ci si chiede se sia possibile separare l’Arte dall’artista che la crea, Damien Chazelle amplia l’orizzonte del problema al contesto sociale e produttivo in cui nasce l’Arte. E il ritratto che ne esce non è lusinghiero.

Il disincanto lascia uno spiraglio di romanticismo solo nella visione epifanica a tempo di musical, che abbraccia il Cinema del passato e del presente. I Sogni su celluloide sono sostanza purissima; la Fabbrica in cui nascono è un girone infernale che cannibalizza aspirazioni, desideri, identità.

UNO STRAORDINARIO SBAGLIO D’AUTORE?

Con Babylon, Damien Chazelle puntava al capolavoro totale, al magnum opus che unisse l’afflato sentimentale di La la land, l’epica storica moderna di First man e lo studio sull’ossessione di Whiplash. Almeno in questo è un capitolo fondamentale di un giovane autore dalla poetica già perfettamente riconoscibile, con soli cinque lungometraggi all’attivo. Sembra quasi un punto e a capo, ideale conclusione della “prima fase” di un percorso artistico. Se si tratti di pura speculazione da parte di chi scrive o se avrà un effettivo riscontro non sarà possibile verificarlo che a posteriori: di certo è che Chazelle riassume temi e suggestioni della propria filmografia passata e le rielabora con un occhio per il futuro.

La risposta estremamente vivace che Babylon ha suscitato all’uscita non era imprevedibile: sembra fatto apposta per scatenare reazioni senza compromessi, richiede a gran voce l’impressione di pancia, l’emozione pura. Perché senza compromessi è anche la sua idea di arte, nutrita di irresistibili ossessioni personali.

Ma se l’intento era questo, il risultato spesso fatica a trovare la quadra delle sue enormi ambizioni. Risulta un film profondamente privo di una direzione, perché cerca di inseguirne troppe allo stesso tempo: tragedia, commedia umana, elegia, critica sociale, satira grottesca, ode al potere dei sogni e del Cinema. Con il doppio effetto di tradire molti dei personaggi e temi che compongono questo mosaico e di perdersi nel labirinto di allegorie grossolane, scene madri, domande poste con intelligenza ma lasciate irrisolte.

Allo stesso tempo, a tutto questo coesistono meravigliosi momenti che da soli valgono tutto il film: sequenze o anche solo singole inquadrature che racchiudono ed esprimono tutte le potenzialità dello spettacolo messo in scena. Una contraddizione che trova una sua paradossale coerenza, una ragion d’essere nel violento contrasto tra bellezza e bruttura, verità e menzogna su cui si impernia l’intero film.

Babylon è un party destinato a mandare in visibilio un numero esiguo di spettatori e scontentarne la maggior parte, e con ottime ragioni. Chi da un film si aspetta coerenza ed equilibrio tra tutte le sue parti – equilibrio a cui lo stesso Chazelle ci aveva abituato – difficilmente approverà un film così ostinatamente convulso. Chi si aspetta buon gusto, rifiuterà questo tour nell’eccesso sgradevole. Chi, d’altra parte, è disposto a lasciarsi trascinare dalla festa in casa Chazelle, avrà davanti agli occhi tre ore di spettacolo puro e di quella meraviglia che solo il Cinema sa ricreare. A prescindere da ciò che ci si può aspettare all’ingresso in sala, comunque, è una festa a cui vale la pena dare una possibilità, anche se va spesso fuori controllo: un grande inciampo d’Autore come questo, forse, vale cento volte altri film molto più riusciti.

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Valentino Feltrin, Redattore