L’AUTORE

Un ragazzo steso sull’attracco dei vaporetti veneziani, con lo sguardo perso ma sempre fisso sul cellulare e la musica trap che lo accompagna. Una giornata estiva dove puoi sentire il calore dei raggi solari che si imprime sulle tegole di legno sopra cui corrono scalzi dei giovani divertiti, intenti a tuffarsi nell’acqua fresca della laguna. In sottofondo una strumentale elettronica, prima dal suono ovattato e poi dalle vibrazioni sempre più alte, fino al comparire del nome di Sick Luke. Si possono riassumere nella sequenza d’apertura le sensazioni che entrano sottopelle durante tutto Atlantide, di Yuri Ancarani, presentato alla passata 78a edizione della Mostra cinematografica di Venezia.

Regista poco conosciuto al grande pubblico ma molto apprezzato dalla critica. Ravennate classe 1972 che da sempre ammette di aver subito il fascino della telecamera, seppur – inizialmente perlomeno – senza aver mai pensato  al grande schermo. Gli studi in arti visive lo introducono alla video-arte, raggiungendo importanti traguardi come la la 55a Biennale di Venezia o il Guggenheim Museum di New York. Quando Ancarani si accorge che la cinepresa e la telecamera da monitor sono diventate pressappoco uguali, si avvicina al cinema frequentando vari festival coi suoi primi cortometraggi, attratto non dall’idea di trovare finanziamenti per progetti di maggior durata, ma ammaliato dall’idea di un forte contenuto racchiuso in un breve spazio di tempo. I 69 minuti di The Challenge (2016 – sulle gare di falchi in Qatar) e i 60 di Ricordi per moderni (2009 – insieme di 13 video registrati nel corso dei precedenti nove anni lungo tutta la riviera romagnola), sono i minutaggi che più si avvicinano all’ipnotizzante ora e tre quarti di Atlantide.

Tutti i suoi lavori hanno un fil rouge: il racconto di realtà non ancora emerse, o affiorate da talmente tanto tempo che stanno ormai affondando di nuovo, ai lati di una realtà che cerca di tenerle nascoste con un sottile sipario d’indifferenza. Nelle sue opere assistiamo al dietro le quinte del mondo come lo conosciamo, nonché alla definizione più pura di regista: colui che indaga, che si pone domande, che spinto dalla forza motrice della curiosità si imbarca – letteralmente, nel caso di Atlantide – alla scoperta del non detto e del non visto, sia per capirne di più del mondo che abitiamo, sia per marcare un sunto del modo in cui abbiamo vissuto fino ad oggi, e di quali siano stati i frutti del nostro vivere.

Il ritratto di una generazione.

INDAGARE PER ARRICCHIRSI

Era il 2008 quando a Venezia l’attenzione di Yuri Ancarani fu attirata da un ragazzino in piedi su una barca, incuriosito da una flebile musica che rimbombava da un mangianastri a bordo. Non la gondola a cui ogni occhio turistico è ormai abituato, ma una barchetta a motore più piccola e neanche troppo ben messa. Avvicinatosi e scambiando due battute, finì per pagare un pieno alla barchetta del ragazzo come gesto d’affetto per la confidenza concessagli. Quel breve incontro fece sorgere nel regista un dubbio: chissà quanti altri ragazzi come questo ci saranno in laguna? Chissà come vivono i pochi adolescenti autoctoni che non vogliono confondersi nel fiume di turisti di cui è gremita La Serenissima?

Per dare una risposta dobbiamo fare un salto temporale di dieci anni, nel 2018: è dopo la vittoria del Locarno International Film Festival e del DocAviv Film Festival per The Challenge (2016), che Ancarani si butta in questo nuovo ambizioso progetto che prenderà il nome di Atlantide. Inizia un periodo di ricerca nella laguna di Venezia, frequentando le isole e tutti luoghi di ritrovo dei giovani veneziani. Si trasferisce sull’isola di Sant’Erasmo e inizia a vivere la realtà quotidiana di San Francesco del Deserto, permettendo ai ragazzi di prendere confidenza e aprirsi pian piano in ogni singolo aspetto della loro vita. Ancarani capisce presto che la realtà dei giovani si compone di due soli elementi: musica e barchette. Non c’è punto d’incontro senza musica. Non c’è punto d’incontro senza barche. Se non va a fondo in queste loro grandi passioni non potrà mai avere un dialogo; non sono solo passioni: sono l’unica cosa che hanno.

L’unico spazio di libertà: la lagune e la barche.

IL FILM

Il regista aveva chiaro sin da subito che un lungometraggio sarebbe stato il mezzo che avrebbe dato maggior dignità e immediatezza di immedesimazione alla vita lagunare, e che i protagonisti – seguendo il suo personale mix di arte visuale e documentaristica – sarebbero stati gli stessi ragazzi non attori. Tuttavia, come strutturarlo? L’idea iniziale era un film sulla psichedelia che trasmettesse un senso di vertigine allo spettatore; un’avventura psichedelica narrata tramite immagini e sonoro. Nel progetto finale è rimasto questo imprinting ma culminando in un film a metà fra cinéma vérité e d’avanguardia: in 104 minuti  si “narra” tramite immagini e strumentali techno e trap, la realtà quotidiana della vita lagunare dei pochi ragazzi autoctoni rimasti a Venezia. Invisibili ai più, se non a coloro che hanno sguardo accorto e oculato per notare una realtà che senza quest’opera sarebbe rimasta celata e nascosta al grande pubblico.

Il risultato è un film allucinante e allucinogeno, che grazie alle musiche di Jacopo Torcellan (in arte Sick Luke) e il già collaudato Lorenzo Senni (da sempre collaboratore di Ancarani) proietta lo spettatore in un vortice senza uscita tanto affascinante quanto infernale, alla pari della vita dei ragazzi in scena. Non è difficile notare negli occhi persi e rassegnati di Daniele Barison, il ritratto di una generazione che il film proietta nel microcosmo veneziano: la generazione Z (o, comunque, quella a cavallo fra gli ultimi Millennial e i nativi digitali) cresciuta da un’educazione scolastica disinteressata e distante, affiancata da quella genitoriale distaccata e incapace di accorgersi e di affrontare l’alienazione che colpisce i loro figli.

A questo punto, non vale più la pena nemmeno domandarsi se sia giusto o sbagliato scaraventare il monitor di un pc in testa all’insegnante o sfrecciare ai 90 km/h in zone di laguna dove il limite si attesta sui 7 km/h. I ragazzi di Atlantide sono destinati ad andare a fondo – proprio come  la mitologica città richiamata dal titolo – in un mondo che si muove attorno a loro e li trapassa indifferente, mentre le loro barche – uniche ancore a cui aggrapparsi – vanno in fiamme. Barche e musica: forse il genere a cui più assomiglia l’esperimento di Ancarani è proprio il musical; Sick Luke (chi altri sennò) e Lorenzo Senni, assieme ai loro 60 mesmerizzanti minuti di musica, si fanno portavoce di questo stato giovanile portando sotto gli occhi di tutti la forza coesiva delle note, unica vera passione che possa far breccia nelle loro emozioni.

Atlantide: disagio e povertà umana nella città italiana per antonomasia fastosa e ricca di cultura.

Ancarani realizza un progetto coraggioso e raro – come testimonia il finale, che dà finalmente spazio d’interpretazione allo spettatore –, un prezioso unicum che il nostro cinema deve custodire gelosamente e valorizzare in ogni modo possibile. Un lavoro che lascia stregati, sbalorditi e attoniti.

Questo articolo è stato scritto da:

Alberto Faggiotto, Redattore