La storia si apre nell’oscura Venezia, alla vigilia di Ognissanti del 1947, quando il famoso Hercule Poirot, ormai pensionato, viene richiamato all’azione da una vecchia amica. Kenneth Branagh indossa nuovamente gli ingombranti baffi prostetici e dirige il terzo giallo della sua personale saga mystery, Assassinio a Venezia, finora il più intrigante e sorprendente dei tre.
Séance: una seduta spiritica a Venezia
Ritiratosi dalla celebrità e senza più lo stimolo a risolvere casi, l’ex detective non desidera altro che coltivare zucche. Ma la scrittrice di gialli Ariadne Oliver (Tina Fey), alter ego letterario di Agatha Christie stessa, insiste affinché Poirot torni in scena. A mezzanotte avrà luogo una seduta spiritica in un antico palazzo che si dice infestato, e le due brillanti menti dovranno smascherare la medium Joyce Reynolds (Michelle Yeoh fresca di Oscar per Everything Everywhere All At Once).
Gli invitati al rito sono in qualche maniera tutti collegati all’anima che vi si vuole richiamare: un anno addietro è morta per presunto suicidio Alicia, figlia della cantante lirica Rowena Drake (Kelly Reilly), padrona di casa che ha indetto la seduta. Partecipano la governante, presente nella fatale notte, l’ex fidanzato della ragazza, il medico di famiglia con l’enigmatico e precoce figlioletto (rispettivamente Jamie Dornan e Jude Hill, riuniti come padre e figlio dopo Belfast, sempre diretto da Kenneth Branagh) e un ex poliziotto (Riccardo Scamarcio). Un omicidio consumato entro le mura di questa tenebrosa casa nella notte di tempesta forza l’investigatore riluttante a rimettersi in gioco.
Ci sono tutti gli ingredienti del giallo classico, che la sceneggiatura di Michael Greene trasferisce a Venezia ma prelevandola da un romanzo originale meno noto di Agatha Christie, intitolato Hallowe’en Party (Poirot e la strage degli innocenti in italiano) pubblicato nel 1969. Branagh regista opta però per un’atmosfera piuttosto diversa da quella a cui ci avevano abituati le due precedenti indagini esotiche, impostando l’adattamento come un ibrido tra whodunnit e thriller paranormale.
Fra apparizioni, nenie infantili, rumori sospetti e rintocchi, il palazzo stesso si anima come un personaggio vero e proprio, inducendo al dubbio persino la fredda e schietta razionalità di Poirot. Inserti horror come boati, cigolii e il crepitare della pioggia interrompono di continuo lo svolgimento, frangono e insieme legano le sequenze, confluiscono in un’orchestra tetra e ritmica che alimenta l’indagine in maniera meno convenzionale rispetto ai due precedenti episodi.
Camera chiusa: teatro e Poirot
La messa in scena di Branagh è particolarmente riconoscibile nella forma teatrale dell’azione: rinchiude tutti i personaggi nello stesso spazio, angusto e sempre più claustrofobico, li obbliga al confronto e a rivelare istinti e pregiudizi. Il cast, come d’abitudine per questi film all-star del regista irlandese, si manifesta nella sua coralità più che nelle singolarità. Spiccano, comunque, il giovane Jude Hill, e le buone prove della brillante Tina Fey e della misteriosa Michelle Yeoh.
La scrittrice e la medium, simbolicamente, incarnano le due istanze avversarie nella mente di Poirot che sono veicolate concettualmente dalla pellicola: raziocinio e superstizione. Sir Ken, infatti, approfondisce qui particolarmente la creatura di Agatha Christie, imprimendo nel volto del protagonista i fantasmi di amori e amici perduti e guerre combattute. Inesorabile mattatore, ci spinge col suo punto di vista dominante a temere veramente che qualcosa di sinistro ed inspiegabile alberghi nella casa.
La sceneggiatura approssima qualche dettaglio di contestualizzazione storica, mescolando il sontuoso Carnevale veneziano con il neo-importato Halloween americano, e mostra il fianco rivelando precocemente elementi che rendono prevedibile il finale. Tuttavia, lo script sviluppa globalmente piuttosto bene un plot che deve prima di tutto intrattenere, e poi, se possibile, scendere in profondità, rivelando le cantine inesplorate di questa serie di adattamenti preposti a condurre una materia classica al grande pubblico contemporaneo.
La regia cattura l’attenzione con grandangoli che deformano le prospettive e concorrono a provocare un’impressione allucinata della realtà. Particolarmente incisiva la colonna sonora di Hildur Guðnadóttir e, nella mano del regista, l’uso consistente di piani olandesi. Insieme agli enigmatici dettagli della scenografia, enfatizzati di continuo come se celassero qualcosa di più di quel che sembra, i virtuosismi tecnici contribuiscono alla costruzione di un’atmosfera sempre più inquietante e di un mistero inafferrabile.
Traumi: quando si riaccenderanno le luci
Nel romanzo originale una tredicenne viene uccisa poco dopo aver rivelato di conoscere la verità sulla morte misteriosa di un’amica avvenuta l’anno precedente. La seduta spiritica è un’aggiunta originale del film, la cui particolarità rispetto ai precedenti casi di Poirot è proprio lo scontro con qualcosa di occulto, in una sorta di duello concettuale tra spiritismo e positivismo – quando venivano impiegate le prime rudimentali macchine di proiezione delle ombre che si vedono nella prima parte del film – in cui ciascuno è chiamato a schierarsi, dalla parte della superstizione oppure della razionalità.
Sono in qualche maniera entrambe forme di reazione ad un trauma, quello che ogni personaggio del film ha vissuto singolarmente, nella morte di Alicia e negli orrori della guerra. In un orizzonte più ampio, è una metafora di come rispondere ad un evento catastrofico e imprevedibile come lo è stata la pandemia recentemente. Assassinio sul Nilo era stato rinviato più e più volte durante l’emergenza, ma Assassinio a Venezia è senza dubbio il primo Poirot dell’era post-Covid, che reagisce come può, forse ancora incapace di dare spiegazioni razionali ad ogni cosa.
Eppure, all’opposto dell’Orient Express e del Nilo, Assassinio a Venezia è il primo caso di Kenneth Branagh a cominciare male e finire bene, come se Poirot fosse riuscito a trovare un compromesso nella sua esistenza tra luci e ombre. Dalla notte di tempesta, che lasciava una Venezia crepuscolare e decadente fuori dalla finestra, si riaccendono le luci (When the Lights Go on Again di Vera Lynn è la canzone del 1943 con cui si apre e si chiude il film) su una città che offre nuovi casi e nuove occasioni al detective.
Così Branagh trova un equilibrio nella messa in scena di queste storie: senza più vincoli a introdurre il suo Poirot o la pressione di farlo funzionare, lo inserisce in un contesto inedito, dove ha maggior possibilità di manovra e si rivela più ispirato. Il mistero di per sé è meno ostico e la soluzione meno plateale, ma un’opera mai vista sul grande schermo si presta meglio a qualsiasi lettura senza rischiare imbarazzanti paragoni. Se Branagh l’ha capito, Poirot risolverà ancora molti altri casi.
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