Dopo l’esplorazione delle galassie dell’ignoto, nei viaggi avventurosi (Civiltà perduta, 2016) e interstellari (Ad Astra, 2019) ai confini della civiltà e dell’universo interiore, con Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse James Gray ritrova il background newyorkese del Queens, dove è nato e cresciuto, già sfondo di solitudini lancinanti nel magnifico mélo post-hitchcockiano Two Lovers (2008), nonché snodo nevralgico di tensioni familiari, sociali e criminali al centro di un’ideale trilogia noir composta da Little Odessa (1994), The Yards (2000) e I padroni della notte (2007). 

C’era una volta, ancora, a New York…

Ci troviamo nel 1980, tra i banchi della Public School 173 di New York City, al primo giorno di scuola (media) del preadolescente Paul Graff (Michael Banks Repeta, azzeccatissima scelta di casting), figlio e nipote di ebrei ucraini emigrati, timido rampollo nerd di estrazione piccolo borghese (mamma Ruth – Anne Hathaway – insegnante, papà Irving – Jeremy Strong – idraulico) con uno spiccato talento artistico che subito lo fa finire nei guai: è redarguito per aver sbozzato la caricatura dell’odioso professor Turkeltaub, e il confino in classe per punizione è occasione per fare amicizia col compagno di sberleffi e indisciplina Johnny Davis (Jaylin Webb), ribelle e affabile ragazzo nero che vive spavaldamente – abbandonato a se stesso, con la precaria assistenza della nonna malata – una dura realtà di orfano in miseria, ma culla l’impossibile aspirazione di diventare astronauta, collezionando entusiasta gli stickers delle missioni Apollo che nutrono anche l’immaginario di Paul, quasi fossimo sull’altro versante dei sogni giovanili di allunaggio suburbano di Apollo 10 e mezzo (2022) di Linklater. La complicità tra i due si complica quando Paul è trasferito nell’esclusiva scuola privata di Forest Manor, severissima e xenofoba istituzione classista – pomposamente sovvenzionata da Fred Trump (papà del più noto Donald) – che mira a forgiare un’élite di squali politici e finanziari per il futuro dell’America. Stretto fra l’insorgere di crisi familiari e la pressione infettiva di spaventosi e annichilenti privilegi di classe, Paul proverà come può a resistere, per conservare sensibilità e libertà di espressione artistica

80’s shades of Gray

Arriva un momento, nella carriera di un regista, in cui la sua grandezza si misura (anche) dalla capacità di cimentarsi, senza complessi d’inferiorità, con un film più piccolo, riconfermando una sorprendente maturità artistica in dimensioni ristrette e personali, e in territori lontani rispetto alla magniloquenza del grande affresco e al discorso sui massimi sistemi. Ci è riuscito Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio (2021). Ci è riuscito Paul Thomas Anderson con Licorice Pizza (2022). Ci riesce ora, in maniera peculiare ma altrettanto eccellente, James Gray, specchiandosi nella fiction per riannodare un passato familiare segnato da profonde radici identitarie, che vengono rimesse in gioco come forma di resistenza e opposizione alla deregulation di relazioni squilibrate e ghettizzate nelle profonde divisioni dell’America reaganiana agli albori. 

Il suo Armageddon Time – come The Fabelmans di Spielberg – è così tutt’altro che un morbido e innocuo amarcord spensierato che si gingilla nella rimozione acritica delle complessità, dando anzi pieno rilievo alle fratture traumatiche individuali e collettive su cui si concentra il focus intimamente politico di Gray. Si scansa la memoria nostalgica e indulgente di un’irrecuperabile età dorata, sgonfiata di tutto il folto e invadente apparato di citazionismo pop e retromania luccicante che dilaga compulsivamente nella rappresentazione feticistica degli anni ’80, nel linguaggio audiovisivo contemporaneo (al netto del disco hip-hop degli Sugarhill Gang, Rapper’s Delight, che insieme a Justice Tonight / Kick It Over dei The Clash marchia il groove timbrico ed emotivo del bromance metropolitano di Paul e Johnny). Quello di Gray è invece un raro pezzo unico che si distingue nella ricca galleria dell’autofiction cinematografica contemporanea: mai banalmente regressivo e passatista, innervato da una viva e acuta tensione in bilico su un futuro – quello di Paul, e dell’America tutta – illimitatamente aperto quanto costitutivamente restrittivo. 

Civiltà perduta, umanità ritrovata

Un amaro coming of age, magnificamente sospeso e irrealizzato, di rifondazione e spaccatura di una coscienza disallineata e spalancata su un abissale vuoto di direzioni e possibilità grande almeno quanto gli incerti sogni di gloria rincorsi, di ragazzi sinceri e appassionati ma prematuramente interrotti e sradicati, orfani di un iconico padre spirituale che indichi chiaramente il cammino e gli orizzonti alla John Ford; attaccati alla sola, fondamentale figura morale (in absentia) di un amorevole nonno materno che illumina la rotta da seguire, nel reagire senza paura alle endemiche ingiustizie del mondo. Un’opera lanciata come un razzo missilistico nello spazio dell’astrazione onirica, ricercata nell’anticonformismo del gesto artistico e poetico, ma concretamente ancorata alla fitta e pullulante mappa di sentimenti, linee di forza, punti (mal)fermi e umori contrastanti di una realtà inafferrabile e costringente, talvolta esaltante ma più spesso avvilente e capovolta di ogni senso di umana empatia e rispetto dell’altro. 

Perfettamente rappresentata nel dipinto di Kandinskij che al Guggenheim Museum rapisce sguardo e immaginazione di Paul, fino a farsi fedele copia delle sue più sfrenate illusioni super-eroistiche, inestricabile crogiolo che traccia le pulsioni nette e sgraziate che affollano il suo confuso e tenace percorso in fieri: splendido groviglio logico e irrazionale di metodo e confusione, di regole e infrazioni compositive, materia informe e direttrici di senso che governano il caos ordinato in villette a schiera di un mondo imploso nella paranoia di una nuova catastrofe nucleare (sbandierata con echi di biblica piaga devastatrice dalla propaganda di Reagan in TV), che può passare nevroticamente dalla faccia sorridente al volto corrucciato nell’attimo sfuggente di un piano (di vita) rovesciato. 

Make America rebel again

Gray ripiega mirabilmente su una patina di limpida e sobria essenzialità, su una misura piana ed esemplare di movimenti di macchina, richiamando atmosfere e poetica della dissonanza silenziosa ma radicale (innescata dal rifiuto di una quotidianità mostruosa e soffocante) tipica degli antieroi perdenti, degli irriducibili e irregolari film contro della New Hollywood anni Settanta: qui rimessa in scena come ultimo baluardo estetico, morale e stilistico, come gesto di estrema difesa di una precisa e romantica visione del cinema e del mondo. Per resistere all’intossicazione omologante di una cultura e di un’estetica visuale artefatta che venerano esclusivamente il successo professionale e il culto del materialismo vincente, a scapito dell’impotente debolezza di minoranze e outsider destinati a marcire nell’anonimato. 

Uno sconfortante spirito del tempo in cui prende corpo la sperequazione sociale presto indotta dalla Reagonomics, e il borioso coming of age – che corre parallelo a quello principale – di un’intera generazione di yuppies che saliranno presto, indisturbati, alla ribalta (perfino il tradizionale ballo scolastico si distorce qui nella passerella del consenso e degli elogi muscolari della Trump Foundation). È allora a questo inevitabile passaggio storico, e a questa mutazione antropologica made in USA, che Gray oppone frontalmente la parabola di due piccoli, incoscienti e testardi dropout, come fosse l’ingenua, coraggiosa, vana e valorosa versione infantile di una storia di fuga, distacco e inquieto randagismo esistenziale non riconciliato di un film di Hal Ashby o Bob Rafelson: come l’artista (mancato) Jack Nicholson in Cinque pezzi facili (1970), anche Paul si chiama fuori e va via per la sua strada diretto verso nowhere, in direzione libera, ostinata e contraria, come un fiero e solitario (piccolo) uomo da marciapiede sperduto in lontananza. 

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Daniele Badella,
Redattore.