Anatomia di una caduta (Anatomie d’une chute) diretto da Justine Triet e scritto dalla stessa regista insieme ad Arthur Harari, è il vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes di quest’anno. Per la regista francese è il primo riconoscimento di tale importanza, dopo che il suo Sibyl – Labirinti di donna era stato presentato nell’edizione del 2019 (l’anno in cui vinse Parasite.)
La premessa è quella di un giallo abbastanza semplice: la scrittrice Sandra (Sandra Hüller) vive in una baita in montagna con il marito Samuel (Samuel Theis) e il figlio undicenne Daniel (Milo Machado Graner). Una mattina Daniel, tornando da una passeggiata con il suo cane guida, trova il corpo del padre apparentemente caduto da un balcone dove stava facendo dei lavori. In verità lo sviluppo del racconto, che segue le indagini preliminari e poi l’intero processo, rivela gradualmente una trama ben più complessa e ricca di tematiche. Sandra viene accusata di aver ucciso il marito, il suo avvocato Vincent (Swann Arlaud) sostiene l’ipotesi del suicidio: da questo momento in poi la vita privata della coppia viene passata al setaccio in ogni dettaglio.
Un grande punto di forza della pellicola è sicuramente l’interpretazione magistrale di Sandra Hüller, suggestiva e in grado di trasmettere un grande impatto emotivo ad ogni scena. Purtroppo è penalizzata nella versione italiana da un doppiaggio non all’altezza della qualità del film, ragione per cui è consigliabile la visione della versione in lingua originale.
Inoltre, il film fa un uso dello spazio e dei movimenti di macchina molto eloquente: poche scene all’aperto che offrono respiro nei rari momenti di chiarezza, mentre la camera a mano e l’uso dello zoom nelle scene al chiuso contribuiscono alla sensazione di claustrofobia data dall’angoscia dei protagonisti e dalla quantità di nuove informazioni scoperte continuamente, svolgendosi quasi interamente nella casa della famiglia, circondata dal panorama freddo e luminosissimo delle alpi innevate, o dentro il tribunale.
Anatomia di una caduta è un racconto intimo e immersivo, che scava nelle ambiguità e nei tormenti di una vita normale, facendo analizzare ai suoi personaggi tutte le interpretazioni che è possibile dare a una conversazione, alla scelta di una canzone anziché un’altra, o ai momenti di fragilità che ogni coppia può incontrare. Quanta conoscenza del contesto, intesa letteralmente come quantità di informazioni e di aneddoti, è necessaria e sufficiente a una giuria di sconosciuti perché sia legittimo assegnare colpe? È possibile che un singolo fatto sia più rappresentativo di un’intera relazione di tutti gli altri episodi sommati?
Inoltre, nel momento in cui viene portato in tribunale uno dei romanzi che la protagonista aveva pubblicato, si apre un’ulteriore livello di discussione: il problema della credibilità di un autore, che si trova a difendere la distinzione tra la propria opera e la realtà davanti ad avvocati convinti di riconoscere l’imputata nella descrizione di un personaggio fittizio. Che l’arte esponga necessariamente la vita di chi la produce è un fatto già universalmente accettato, ma è possibile interpretare un’opera creativa con un rigore scientifico tale da renderla utilizzabile come prova?
La ricerca della verità
Justine Triet non offre una risposta, né alla domanda “superficiale” posta dal processo, quella sull’innocenza o meno di Sandra, né a tutti gli altri problemi sollevati implicitamente. Per quanto riguarda il primo livello, tutti i racconti e gli indizi mostrati possono essere letti sia nell’ottica di un suicidio, sia in quella di un omicidio compiuto da Sandra. Per il resto, non si arriva mai a una rivelazione, non c’è – tra i diversi colpi di scena comunque presenti – un fatto o un’immagine che suggeriscono una risposta a questi dilemmi.
Il piccolo Daniel assiste al processo restando spesso sullo sfondo, ma ha un ruolo fondamentale: quello di porre la domanda giusta, quella a cui è possibile rispondere, sovrastando quasi come un deus ex machina l’affanno creato da due ore di dibattito senza via d’uscita. L’unico neo del film è proprio l’aver dedicato poco tempo a lui e in generale allo stato del suo rapporto con i genitori all’inizio della storia. La posizione di Daniel è comunque intuibile dai racconti ma non viene portata in primo piano prima della fine, rendendo il suo ruolo di “chiave” meno efficace di quel che probabilmente voleva essere. Rimane vero il fatto che ci troviamo di fronte ad un’opera ben fatta e una regista molto promettente.
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