Verso il finale di American Fiction, una fra i giurati di un importante premio letterario afferma con convinzione «Credo che dovremmo davvero ascoltare la voce dei neri in questo momento». L’ironia è nel paradosso, ossia nel fatto che, con questa decisione, i giudici bianchi stiano bocciando l’opinione di due scrittori neri nella giuria.
La dramedy di Cord Jefferson candidata a 5 premi Oscar è sostanzialmente una satira di come il politically correct indirizzi l’industria letteraria (e cinematografica), eppure è molto più complessa di così.
Thelonious ‘Monk’ Ellison è un autore di romanzi mitologici eruditi, che tuttavia non riesce a pubblicare il suo ultimo romanzo perché non è abbastanza nero. Particolarmente irritato dall’ipocrisia della società bianca americana, scrive di getto il romanzo più ruffiano e stereotipato che gli riesca sul mondo afroamericano. L’operazione, intesa dall’autore come una presa in giro, viene inaspettatamente accolta con entusiasmo ed ammirazione, e Monk l’accetta per far fronte alle difficoltà economiche della famiglia.
We’s Lives in Da Ghetto: una finzione americana
Fa un ottimo lavoro tutto il cast, dai protagonisti ai personaggi più piccoli, che sono caratterizzati eccezionalmente al dettaglio. Jeffrey Wright in particolare offre una grande interpretazione, senza mai esagerare. Anzi, dà il meglio quando non pronuncia battute, attraverso reazioni ed espressioni messe in risalto da un montaggio sempre brillante nelle circostanze più surreali: insieme agli altri giudici del premio letterario, negli scambi caustici con il fratello e la sorella, con gli editori e il produttore cinematografico pazzi del suo libro.
Cord Jefferson si cimenta per la prima volta alla regia di un lungometraggio, e se la cava bene, grazie soprattutto alla solida sceneggiatura di cui è autore, adattando il romanzo del 2001 Erasure, già a sua volta metaletterario come viene trasposto nel film. Pure il titolo «American Fiction» è azzeccatissimo, riflettendo sia il genere letterario che l’esperimento di finzione sociale perpetrato da Monk con insperato successo.
Panoramiche, dettagli, brevi momenti riescono anche a inquadrare atmosfere che sembrano uscite dai racconti di Raymond Carver o dai dipinti di Edward Hopper, pennellando un’estetica di suggestione statunitense. Sono quadri genericamente americani ed eruditi, le ambientazioni ideali nelle quali uno scrittore come Monk vorrebbe trovare spazio, ma è costretto a camminare a testa bassa, guardarsi intorno circospetto, fingere uno slang pretenziosamente limitato al ghetto.
Il protagonista non riesce a vendere il suo manoscritto Persiani, ad un certo punto si parla di un suo romanzo precedente intitolato Le Rane: è evidente che Monk attinga alla letteratura greca per le sue trovate letterarie. Non sembra casuale, visto come l’antichità mediterranea stia venendo progressivamente emarginata dai college americani nel mondo reale, perché non sufficientemente rappresentativa delle diversità secondo i parametri della società contemporanea.
F*** (the system): che cosa non funziona oggi
American Fiction è un film delicato di cui parlare, per via di tutte le implicazioni culturali che inchiodano l’occidente con le sue ipocrisie. Solo tra queste righe, già rischiamo di scivolare nel commentario caustico che la pellicola di Cord Jefferson propone, approvandone il ritratto. Ha un che di simile al recente Dream Scenario con Nicolas Cage nel valutare cinicamente l’andamento della civiltà politicamente corretta, ma è senz’altro più focalizzato nel raccontare la storia dal punto di vista di uno scrittore nero.
Pur proponendo una riflessione consistente in maniera adeguata, questo saggio cinematografico non è però nemmeno immune dall’accusa di essere ruffiano, a partire dal fatto che non sa prendere decisioni ferme in vari punti decisivi dello svolgimento: non ha un solo finale ma tre, non fornisce una morale universale ma diverse e anche contraddittorie. Eppure questi non sono errori, ma precise scelte stilistiche e metaletterarie che riflettono le uniche vie che un afroamericano può intraprendere nel mondo della produzione artistica.
Se la narrazione del popolo nero dev’essere per forza ruffiana per essere ricevuta dalla società statunitense, American Fiction accetta di esserlo. Condanna persino il suo protagonista, benché paresse l’unico baluardo di buonsenso in un mondo privato di certezze etiche. Ci sono divergenze anche tra due scrittori neri, Monk e il personaggio di Issa Rae, perché in fondo non esiste una sola e incontestabile verità.
Il problema, infatti, come denuncia il film, sta nell’occhio del pubblico contemporaneo, che pretende di leggere il mondo solo bianco o nero, limitando le possibili espressioni artistiche degli afroamericani ad autoritratti di gente emarginata e disperata. Quindi come deve comportarsi un autore? Assecondare gli stereotipi abbracciando un successo garantito o rinnegarli a costo di passare inosservato?
Così come l’universo che tratta, è scivoloso cercare di individuare una lettura univoca di American Fiction, un film che sicuramente racconta con efficacia, attraverso la satira delle strutture commerciali presenti, i paradossi concettuali dell’occidente ripulito degli ultimi decenni.
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