Dopo il grande successo di Favolacce c’era indubbiamente grande interesse attorno alla nuova opera dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, intitolata America Latina e presentata alla 78ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Questo thriller, ambientato a Latina e retto sulle spalle da un bravo Elio Germano, narra la storia di Massimo Sisti, un dentista molto professionale sia con i pazienti che con le sue collaboratrici. Ha una bella famiglia (moglie e due figlie che sono al centro della sua vita), una villa molto ampia e immersa nel silenzio. In definitiva è un uomo socialmente arrivato grazie al proprio senso del lavoro e alla propria serietà professionale. In questo contesto, in un giorno qualsiasi, Massimo scende nel suo grande scantinato, in cui incontra l’assurdo.
Il titolo del film, “come un bellissimo Frankenstein, unisce l’America – che da quando siamo fanciulli rappresenta il sogno, quello che immaginiamo – e Latina, quella terra bonificata che è il nostro contatto reale. America Latina è lo sposalizio tra reale e sogno”, spiegano i registi.
L’ALIENAZIONE DELL’UOMO DI PROVINCIA
La pellicola si apre con una sequenza di immagini della provincia di Latina, alla cui desolazione viene contrapposta la silenziosa e raffinata villa di Massimo, che sin dall’inizio viene dipinto come un padre di famiglia perfetto, capace di piangere per la bellezza delle note suonate da sua figlia al pianoforte, amico generoso e il datore di lavoro che tutti vorrebbero avere. Ed è dopo i primi 5 minuti di film che avviene il colpo di scena su cui viene costruito l’intero film. Da qui in avanti la vita di Massimo viene pian piano stravolta in una discesa verso l’inferno, un viaggio sia fisico che mentale, pervaso da una tensione costante e messo in scena dai registi con una spirale di eventi caratterizzati da un’impronta grottesca sempre più marcata fino alla risoluzione finale.
La trasformazione di Massimo, scaturita dalla sua psiche completamente distrutta, viene messa in scena sul piano mentale grazie a un uso sapiente delle luci e dell’ambientazione, partendo dalla luminosità delle location iniziali e virando verso luci al neon rosse e verdi e scene in notturna, a sottolineare il buio della ragione, con scelte estetiche indubbiamente derivative dal cinema di David Lynch e Nicolas Winding Refn. Il colpo di scena iniziale è realizzato in maniera impattante e ricorda a tratti la prima comparsa del mostro di Martyrs, il piccolo gioiello del cinema horror contemporaneo diretto da Pascal Laugier. Il tono grottesco viene pienamente giustificato dal filtro che Massimo applica alla realtà provinciale che lo circonda, dove paranoia, insicurezze ed egoismo vengono amplificati dall’assunzione di alcol e farmaci. A livello fisico i registi sono bravi a lavorare sul corpo di Elio Germano, ridotto col passare dei minuti a uno stato larvale, con movimenti e pose fisiche tipici di un infante in un corpo da adulto.
IL DUALISMO TRA SOGNO E REALTA’
L’intera pellicola è costruita sul concetto di dualismo, di confronto con se stessi e con gli altri, il tutto sottolineato da numerose inquadrature costruite sulle immagini riflesse da vetri, specchi o dall’acqua di una piscina. Durante il film ci sono continui parallelismi tra vita perfetta e mostruosità, ricchezza e povertà, lo scontro tra padre e figlio e i personaggi interagiscono quasi sempre a coppie e mai in maniera collettiva, anche quando più persone condividono la stessa inquadratura. Alla bellezza della silenziosa villa di Massimo vengono contrapposte le immagini della provincia di Latina, spoglia e arida come i personaggi di questa pellicola, personaggi profondamente soli e alienati, il tutto accompagnato dalle musiche dei Verdena che a tratti ricordano alcuni temi composti da Angelo Badalamenti per David Lynch.
Sulla scia di quanto realizzato in Favolacce, anche in quest’opera i registi, insieme al direttore della fotografia Paolo Carnera, danno sfoggio di tutte le loro capacità registiche, con inquadrature ardite, piani sequenza caratterizzati da movimenti di macchina elaborati e transizioni tra campi lunghi e primi piani. Questa regia estremamente invadente e potente, tuttavia, non è supportata dalla storia raccontata: la narrazione, infatti, è scarnificata fino all’eccesso e non risulta essere altrettanto efficace. La risoluzione finale, inoltre, manca di coraggio, andando a fornire tutte le risposte, come se i registi non si fidassero delle capacità deduttive dello spettatore ed eliminando quell’ambiguità di fondo che era stata la forza del film fino a quel momento e che, in precedenza, aveva contribuito alla riuscita di Favolacce.
Se il risultato complessivo non può che risultare parzialmente derivativo, bisogna tuttavia riconoscere che i fratelli D’Innocenzo siano gli unici in Italia a portare avanti un certo tipo di cinema, coerente a livello sia visivo sia narrativo: sono dunque davvero definibili come due autori. A conti fatti America Latina risulta essere una buona pellicola: un ulteriore tassello nella crescita artistica dei gemelli, di cui aspettiamo con interesse il prossimo film, in cui ci auguriamo siano in grado di affiancare alla sontuosa messa in scena una sceneggiatura di pari livello.
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