La saga di Alien è, tra le altre cose, sinonimo della diversità di orientamenti intrapresi dai registi che si sono succeduti al timone nel corso dei decenni. Dall’orrore viscerale del primo agli space-marines spacconi del secondo, dal pessimismo claustrofobico alla divisiva – all’epoca – riflessione horror-esistenziale dei prequel Prometheus e Alien Covenant. Senza contare i caciaroni crossover con i Predator, improntati al puro divertimento privo di alcuna pretesa.
E ora è la volta di Alien: Romulus e di Fede Álvarez, già regista del remake di Evil Dead e di Man in the dark. Porsi in continuità con l’originale ma con un approccio fresco è la scommessa del tentativo in parte sequel, in parte episodio a sé stante, in parte remake mascherato.
Dove il sole non sorge mai
La Romulus è l’ultima speranza di un gruppo di coloni, lavoratori in un pianeta minerario gestito dall’ubiqua corporazione Weyland-Yutani. Una stazione spaziale in rovina divisa in due strutture che richiamano i fondatori del mito, abbandonata dopo che un misterioso incidente ha decimato il personale a bordo. Per Rain (Cailee Spaeny), l’androide e fratello adottivo Andy (David Jonsson) e i loro compagni e coetanei in cerca di un futuro migliore, ciò che la stazione contiene rappresenta l’unica possibilità per evadere da un destino segnato all’ombra della compagnia. Come al solito, il gruppo di fuggiaschi scoprirà a proprie spese i mostri tra le ombre della stazione morente. E, come al solito, l’implacabile predatore dal sangue acido è solo uno dei mostri, reali o metaforici, occultati dalla compagnia.
Una creatura da sempre bavosa incarnazione di una bramosia maschile pervasiva e strisciante, nonché strumento della hybris esemplificata, nei prequel, dal vegliardo fondatore della Weyland-Yutani in cerca di immortalità. A farne le spese, in questo caso, sono i giovani coloni in cerca di un futuro migliore, vittime della Compagnia che, come un Crono freddo e impersonalmente crudele, fagocita i propri figli per assecondare la propria innaturale spinta al dominio.
La macchina di morte più antica dell’universo
Vecchio e nuovo, dunque. Com’era stato con il suo Evil dead, Alvarez riprende il mood degli originali, bilanciando l’horror con l’azione e le esagerazioni blockbusteriane alla Cameron filtrati dalla sua personale poetica. Un mood ancora più tetro si alterna a sequenze da videogioco e a una maggiore attenzione alle possibilità creative offerte dall’ambientazione, ostile e letale tanto quanto l’alieno che striscia nei suoi anfratti.
La vera novità è rappresentata dallo sguardo fresco dei suoi protagonisti, giovani inesperti di fronte al pericolo, disperati e talvolta odiosi ma anche empatici e risoluti. Le interazioni, la loro reazione all’ambientazione del pianeta e della stazione alla deriva aggiungono una nota di cinismo ma anche una rinnovata urgenza, inedita rispetto ai protagonisti – adulti – cui siamo abituati.
Idealmente, l’approccio giusto per rilanciare un oggetto così singolare come il franchise di Alien. Nuovo e classico nella messa in scena, brilla quando recupera il meglio di entrambi i mondi e, in modo quasi contraddittorio, zoppica nel momento in cui cerca di inserirsi nel più ampio contesto della continuity di Alien. Le citazioni abbondano, come sembra essere da contratto per un nuovo capitolo di un franchise popolare nel ventunesimo secolo, ma sembrano particolarmente fuori luogo in una storia che esprime il suo meglio quando non si ricorda di essere il settimo capitolo di una saga che conta già svariati sequel e prequel.
Rispetto alla più recente direzione intrapresa da Scott, impopolare, problematica ma quantomeno votata a dare una rotta radicalmente nuova, Fede Álvarez vorrebbe mantenere un piede in due scarpe: il più grande pregio e, allo stesso tempo, il maggiore freno di Alien: Romulus.
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