Uno dei primi film che possiamo vedere quest’anno, in anteprima su MUBI, sarà probabilmente anche uno dei migliori. Sicuramente il sensazionale debutto di Charlotte Wells alla regia -affiancata nella produzione, tra gli altri, da Barry Jenkins- non aveva lasciato indifferente la critica lo scorso anno, diventando prima il film più discusso de la Semaine de la Critique al Festival di Cannes e arrivando infine in cima a molte delle classifiche di fine anno, tra tutti Sight And Sound.
Parlare di Aftersun come un capolavoro non è prematuro, è un film delicato ma devastante i cui fotogrammi hanno il potere di accompagnare lo spettatore ben oltre il momento della visione, crescendo di significato nel ricordo e compiendo qui il suo vero miracolo ossia quello allineare l’esperienza reale del pubblico a quella dei protagonisti.
Lo sviluppo di Aftersun impiega consapevolmente una lentezza che richiama lo sviluppo di un’istantanea, una polaroid simile a quella che ritrae Frankie Corio e Paul Mescal, da tenere al riparo dalla troppa luce. Charlotte Wells sceglie di mostrarci come il ricordo sia materia sfuggente, che temiamo di perdere non appena passa e per questo rincorriamo con tutti i mezzi tecnologici a disposizione -in questo caso con una telecamera mini DV-, anche se finisce per ripresentarsi spesso in forme inaspettate.
Lo sfondo delle registrazioni è un economico villaggio turistico sulla costa Turca, dove alla fine degli anni ‘90 l’undicenne Sophie trascorre una settimana di vacanza insieme al giovane padre Calum, collezionando inconsapevolmente gli ultimi ricordi del genitore. Istanti che vent’anni dopo diventeranno le uniche tracce per riempire il vuoto della sua assenza, nel tentativo di riconciliare l’immagine dell’uomo che ha conosciuto con quello che le è sfuggito.
Il film si apre manifestando subito questa urgenza di conoscenza unita ad un profondo senso di incertezza, infatti ad interrompere la calda luce estiva che pervade il filmato, dove Calum si rifiuta di rispondere alla domanda della figlia “dove ti vedevi a trent’anni quando avevi la mia età?”, incombono le luci stroboscopiche di un rave e vediamo Sophie immobile in mezzo alla folla. In questa transizione, dove la luce si alterna all’oscurità, il passato risulta inevitabilmente legato al presente, aggirando anche la volontà personale di mantenere i due spazi temporali separati, senza che però questa connessione aiuti a fornire risposte chiare.
L’OMBRA DELLA DEPRESSIONE
Il film riflette criticamente anche sul reale potere dell’immagine cinematografica, se infatti per Steven Spielberg in The Fabelmans questa assumeva una funzione di svelamento rispetto a ciò che vediamo, permettendoci di scoprire quello che normalmente ci sfugge, per Charlotte Wells resta insufficiente, troppo opaca per restituire tutte le sfumature del nostro vissuto. Infatti, solo quando ai filmati si sovrappone ciò che accade fuori campo si realizza quanto della sofferenza di Calum sia rimasto nascosto.
Nonostante la depressione del genitore rimanga per tutta la durata del film solo accennata, lontano dallo sguardo della figlia, per preservare il poco tempo che possono trascorrere insieme, Calum piange, si astrae, corre verso il mare di notte. La sua vita non sta seguendo un percorso lineare, ha perso momenti della sua giovinezza a causa dell’arrivo inaspettato di Sophie, è separato dalla madre della bambina, vive lontano dalla famiglia e fatica a mantenersi. I suoi 31 anni gli appaiono 131 -come scherza Sophie- sente di aver esaurito il tempo a disposizione senza essere mai diventato veramente adulto, perso in un limbo dove anche Happy Birthday assume una sfumatura oppressiva.
La sceneggiatura, essenziale quanto stratificata, si colloca immediatamente in uno spazio familiare, condividendo una certa continuità stilistica con la scrittura impregnata di malinconia di Sally Rooney, universo letterario e seriale che ha lanciato Paul Mescal come nuovo volto della scena indipendente. Paul Mescal traccia così un percorso naturalmente lineare espandendo la sensibilità e la vulnerabilità sommessa già espressa in Normal People fino ad elevarne la profondità in espressioni in grado di far emergere solo in superficie il dolore di Calum.
“TU HAI TEMPO”
In Aftersun assistiamo agli eventi assumendo allo stesso tempo due punti di vista, la percezione di Sophie e Calum però si gioca per opposti. Nonostante Sophie riesca ad intercettare alcuni cambi d’umore del padre durante la vacanza è distratta dalla sua stessa esperienza, vive infatti un personale coming of age, trovandosi alle soglie dell’adolescenza, iniziando a notare per la prima volta l’interesse dei ragazzi nei suoi confronti e sperimentando alcune dinamiche sconosciute all’infanzia. Inoltre, per i due il passare del tempo assume un significato molto diverso, anche se entrambi nutrono un timore di fondo nei confronti del futuro, timore che non può però sovrastare Sophie, che rispetto al padre ha il grande vantaggio di avere di fronte a sé tempo sufficiente per realizzarsi, a Calum questo tempo appare invece in scadenza. L’azzurro del mare e del cielo incornicia i protagonisti quasi per tutta la durata del film e se per Sophie rappresenta una luminosità da esplorare per Calum invece mostra il suo lato più oscuro, specialmente la notte quando sembra essere un richiamo verso il vuoto.
CI PENSO IO
Per quanto Sophie intuisca in alcuni momenti che c’è qualcosa che non va nel comportamento del padre, non vuole rimanere esclusa dalla possibilità di comprendere cosa si celi dietro i non detti. Infatti, quando perde accidentalmente la maschera da immersioni si dimostra subito consapevole del valore economico dell’oggetto, come quando torna in stanza dopo la serata più difficile per Calum e gli rimbocca le coperte. Le domande che lei pone al padre non sono più quelle insistenti dell’infanzia ma si stanno assottigliando diventando più rade ma allo stesso tempo più pungenti. Sophie inizia a sentirsi pronta per un confronto più maturo ma Calum d’altra parte preferisce risparmiarle del tutto il suo dolore. Si rimuove il gesso in bagno mentre Sophie resta in camera da letto, mantenendo una distanza esplicitata dal muro che li divide, in un’inquadratura che li ritrae insieme ma separati.
UNDER PRESSURE
La colonna sonora dà sapientemente voce ai pensieri taciuti dei protagonisti, prima di Calum con Tender e poi di Sophie con Losing my religion. Ma è con Under Pressure che i due ballano insieme quella che effettivamente sarà ricordata da Sophie come la loro “last dance” mossi da un’amore che non sembra essere mai abbastanza.
Solo in questo momento, durante un saluto all’aeroporto di una malinconia devastante si riescono davvero a mettere insieme tutti i pezzi della storia. La telecamera ruota con lo stesso movimento iniziale -dal passato al presente- e per un attimo Sophie e Calum sembrano rivedersi di nuovo per l’ultima volta, finalmente sullo stesso piano, comprendendosi davvero.
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