Essere o non essere? Ma soprattutto: chi essere? In A Different Man, il volto è una mappa geografica su cui si dispiegano e ripiegano le numerose angolature dell’identità, un punto di partenza e di arrivo per scandagliare l’interiore. Spinto da un personale interesse per l’apparente e il fisico, al suo terzo lungometraggio Aaron Schimberg impiega ancora una volta (dopo Chained for life, del 2019) il terreno della recitazione come contenitore di nevrosi, come palcoscenico di introspezione.
Uno, nessuno e…?
Chi è Edward? All’inizio, Edward (Sebastian Stan) è un complessato e socialmente inetto la cui neurofibromatosi si manifesta in gravi malformazioni al viso. Aspirante attore la cui unica parte è quella della comparsa in politicamente correttissimi video di sensibilizzazione, si presta a un intervento innovativo che gli dona un volto nuovo e più convenzionalmente attraente, a segutio del quale assume una nuova identità. Ma Edward è anche il nome del personaggio con cui la vicina di casa, la drammaturga Ingrid (Renate Reinsve), chiama il protagonista del suo spettacolo Off-Broadway basato proprio sulla sua vita precedente alla trasformazione. Una parte che il “rinato” Edward, con la nuova identità di Guy Moratz, è nato per interpretare… se non fosse per l’intromissione di Oswald (Adam Pearson, alla seconda collaborazione con il regista dopo il già menzionato Chained for life), anch’egli gravemente deturpato da una forma di neurofibromatosi, ma dalla personalità opposta: solare, estroverso, fin troppo positivo, una sorta di Gastone per il Paperino rappresentato da Edward/Guy, una vita che avrebbe potuto avere ma non ha mai raggiunto. Infine, e soprattutto, Edward è ciò che lui vede di sé stesso, ciò che gli altri vedono di lui, e come lui proietta l’immagine di sé sugli altri. La narrazione di A Different Man è appena meno contorta di quanto questo schema lasci intravedere, sullo sfondo di una New York costruita come un labirinto degli specchi.
L’ombra sulla parete
Aaron Schimberg imbastisce una commedia psicologica nerissima che è, prima di tutto, una trappola per lo spettatore, per i suoi preconcetti. Identità, immagine pubblica, pubblico: un calderone di surreale e contemporaneo che, nelle mani sbagliate, avrebbe potuto dar vita a un pasticcio fuori fuoco, un po’ com’era stato il (per chi scrive) poco centrato Dream Scenario di Kristoffer Borgli. Schimberg, da parte sua, riesce a mantenere l’equilibrio tra scherzo crudele e sensibilità, senza sacrificare la prima in favore di facili discourse. Se talvolta raggiunge vette decisamente implausibili – ma non così assurde quanto ciò che siamo disposti a fare per il nostro volto pubblico -, alienando l’equilibrio faticosamente costruito tra dramma, thriller e commedia fantastica, queste appaiono giustificate nelle cadenze e nelle situazioni quasi slapstick da cartone animato, nei continui ribaltamenti che Schimberg impiega per toglierci il tappeto da sotto i piedi.
Il fatto poi che l’unico personaggio realmente positivo, Oswald, più che “imperfetto” secondo i convenzionali canoni estetici, sia in realtà talmente buono e perfetto da risultare alla lunga antipatico e insopportabile è solo l’ultimo dei paradossi operati da Schimberg, nei confronti di certe modalità di rappresentazione mainstream di soggettività divergenti – ancora troppo spesso raccontate da un punto di vista pienamente conformista e convenzionale. Idealizzate, sanificate in e proprio per questo deumanizzanti: Schimberg le fa proprie e le rigetta in faccia allo spettatore.
Se A different man non è per tutti i gusti, a causa (o in virtù) del suo approccio ambiguo e, in fin dei conti, poco risoluto, diretto strettamente a chi è disposto ad assecondare il viaggio nella New York da (brutto) sogno costruita da Schimberg, a lasciarsi smascherare, a scoprire la bruttura che è sempre in agguato dentro di noi, dietro la nostra faccia.

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