Non era facile raccontare una persona che non ha mai cercato di farsi conoscere. A complete unknown è diretto da James Mangold e attualmente candidato a otto Oscar, tra cui Miglior film, ed è stato tratto dalla biografia Dylan Goes Electric! di Elijah Wald (2015).
Il titolo del libro si riferisce alla svolta rock del cantautore, che è anche quindi il periodo su cui si concentra il film. Si tratta di un tempo relativamente breve che va dall’esordio a New York nel 1961, con il primo disco prodotto dalla Columbia che era però una raccolta di cover, seguito dal rapidissimo successo fino al concerto del 25 Luglio 1965 al Newport Folk Festival, che segnò la rottura definitiva con il mondo folk e la comunità che vi ruotava attorno. Il risultato è un biopic immersivo, privo di grandi sorprese ma decisamente piacevole da guardare. L’attenzione per l’uso della luce e dei colori crea un’atmosfera che cattura subito l’attenzione del pubblico. Sono degne di nota anche le performance del cast, in particolare di Timothée Chalamet, Monica Barbaro nei panni di Joan Baez ed Edward Norton in quelli di Pete Seeger, tutti meritatamente candidati a questa edizione degli Academy Awards.
Bob Dylan, il cui nome originale era Robert Allen Zimmerman, è ed è stato tante cose: cantante folk, cantante rock, musicista, cantautore, premio Nobel per la letteratura (2016), icona di un movimento da cui ha avuto bisogno di slegarsi quasi subito. Ha sempre reso evidente quanto l’essere associato a definizioni fosse per lui una costrizione. Iniziò a presentarsi con il nome d’arte di Bob Dylan all’inizio della sua carriera e finì presto per cambiarlo ufficialmente all’anagrafe. Attraverso soprattutto la relazione con Sylvie Russo (Elle Fanning) Mangold ci mostra una giovane completamente assorbito dalla scrittura e deciso a non lasciarsi definire da nulla che gli sia accaduto in passato, tanto che oltre a cambiare nome racconta di sé fatti incoerenti, rendendo impossibile conoscerlo in un modo che non sia ascoltare le sue canzoni.
L’uomo e la musica
Se da una parte A complete unknown è ben costruito e abbastanza coinvolgente, dall’altra non sfrutta a pieno il potenziale dato da un soggetto così interessante. La parte centrale del film sconfina un po’ troppo a lungo nella vita privata di Dylan, probabilmente nel tentativo di mostrare il lato umano del genio, senza avere le idee chiare su cosa ci fosse da raccontare in proposito. Il rapporto travagliato con la collega Joan Baez è rappresentato superficialmente come un problema di gelosie personali e, sostanzialmente, del suo carattere difficile. Mangold non si azzarda a indagare la storia più di quanto sia necessario a un racconto cronologico, tenendo a distanza sia il mondo interiore del protagonista che le controversie sociali e politiche nelle quali era immerso. Come accade naturalmente con i periodi di grande fermento, è impossibile scindere le posizioni personali di ciascuno dal ruolo che svolgono, se si vuole dare un quadro il più completo possibile. In A complete unknown la storia dell’America di quegli anni scorre quasi sempre parallela alla vita di Dylan, con meno punti di contatto di quelli che sarebbe stato interessante vedere. In favore della regia di Mangold si può comunque affermare che quelli che ci sono sono realizzati con maestria: per citarne uno su tutti, la crisi dei missili di Cuba del 1962, durante la quale, nell’apprensione generale, Dylan è sul palco di un locale newyorkese e le sue canzoni parlano per lui. Sono giustamente numerose le scene dedicate esclusivamente alla musica, nelle quali Chalamet fa un lavoro magistrale di interpretazione e controllo della propria voce.
Purtroppo notiamo che lo stesso distacco per la questione politica è stato riservato al dietro le quinte della produzione musicale. Highway 61 Revisited viene citato nel film come l’album pivotale del percorso, quando in realtà sei mesi prima del Norfolk Folk Festival era uscito Bringing it all back home, sempre prodotto dalla Columbia, con un sound già decisamente blues che ha fatto da ponte per l’evoluzione successiva. Maggie’s Farm, con cui nel film si apre il breve concerto con la band, viene da questo disco. Non viene fatto nessun tentativo di esplorare il processo creativo, o quantomeno le possibili tappe di questi anni, ad eccezione di alcuni brevi dialoghi con Johnny Cash (Boyd Holbrook).
Conclusioni
Per concludere bisogna ricordare che questo era probabilmente l’unico modo di raccontare un artista che è stato effettivamente elusivo per tutta la vita: qualunque commento più approfondito sarebbe stato una congettura più che un elemento biografico. Questo approccio fa sì che il materiale non sia del tutto sufficiente a reggere 140 minuti di film, la parte centrale di cui sopra perde ritmo, ma il problema si risolve presto appena il racconto entra nel vivo dei fatti del 1965, fino al climax del concerto. A complete unknown rimane una biografia ben fatta e, per quanto possibile, fedele al personaggio.

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