Girare film di genere in Italia è cosa non da poco e risulta ancora più complicato se si tratta di pellicole horror. Lo sa il pubblico più affiatato, che negli ultimi anni ha dovuto farsi strada tra una miriade di prodotti mediocri per riuscire a trovarne soltanto una manciata che si potesse salvare, e lo sa bene chiunque abbia provato a portarne alla luce uno, sia che si tratti di nomi conosciuti(si passa da mostri sacri come Avati a registi più di nicchia come D’Antona) sia che si tratti di un regista emergente al suo primo lavoro.

Lo sa bene anche Roberto De Feo, attivo con diversi cortometraggi già nel 2008, ma che ha dovuto attendere undici anni per poter girare e mostrare al pubblico il suo primo vero lungometraggio

The Nest: il nido, pellicola che riscosse un enorme successo sia di critica (vinse numerosi premi e ottenne anche una candidatura come miglior regista esordiente ai Nastri D’Argento) sia di pubblico, tanto che la casa di produzione Colorado Film arrivò a stipulare un accordo con Paramount per un remake americano del film. A due anni di distanza dalla pellicola d’esordio, De Feo, aiutato alla regia da Paolo Strippoli e con Netflix come produttore, ha creato al suo secondo lungometraggio un horror che già dal titolo vuole fare riflettere: A Classic Horror Story, che tradotto per i non anglofoni è La classica storia dell’orrore. Più chiaro di così si muore, no?

OLD VS NEW

Creare una pellicola horror oggi significa sostanzialmente scontrarsi con un concetto: guardare al passato, traendone le giuste ispirazioni dai grandi classici, ma puntando al futuro e quindi cercando l’innovazione. Non è un passaggio obbligatorio, ci mancherebbe, ma è uno step, un gradino che ogni regista vuole affrontare se il suo intento è quello di non creare la “classica storia dell’orrore”.

La pellicola di De Feo si apre con il viaggio di cinque persone normali, con i loro pregi e difetti e con le loro vite con problemi annessi. Non si conoscono, in quanto il camper nel quale viaggiano è un “uber”, un semplice mezzo per arrivare nel punto in cui le loro normali vite riprenderanno, cosa che ovviamente non succederà. Perché se il capolavoro di Hooper Non aprite quella porta  ci ha insegnato qualcosa, è che viaggiare in camper in un horror non è mai una buona scelta e difatti dopo aver avuto il (classico) incidente, i cinque si risvegliano nel bel mezzo di una radura, con soltanto una inquietantissima casa il cui aspetto risulta un mix tra la casa della strega di Gretel e Hansel (Oz Perkins,2020) e la catapecchia de La Casa (Sam Raimi) di fronte a loro e circondati da alberi. Da qui i cliché e le citazioni si susseguiranno una dopo l’altra, con racconti folkloristici, sette sataniche e macchinari ai limiti del “torture porn”, fino al plot twist, alla spiegazione del perché questa pellicola risultasse fino a quel momento così ovvia e scontata.

Seppur con alcuni limiti, soprattutto nel terzo atto, la sceneggiatura del film risulta particolarmente solida e capace di introdurre richiami da tantissimi horror, dai più conosciuti ai meno e dai più datati ai più recenti. Oltre ai già citati, si trovano palesi ispirazioni a The Wicker Man (Robin Hardy, 1973), Quella casa nel bosco (Drew Goddard, 2011), Midsommar (Ari Aster, 2019) o The Blair Witch Project (Daniel Myrick e Eduardo Sánchez, 1999), il tutto intelligentemente amalgamato alla storia del folklore sui tre cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso alla base delle sventure dei protagonisti.

Come intelligente risulta il plot twist, intelligentemente celato agli spettatori, ma comunque sensato e con basi solide, che mostra quale sia il vero messaggio del film, che lasciamo allo spettatore l’onore di scoprire.

UN PRODOTTO NOSTRANO

Ad una prima distratta occhiata, il film può tranquillamente non sembrare italiano. La fotografia in primis, ma tutto il comparto tecnico ha costruito un film che può tranquillamente essere venduto anche al di fuori della nostra penisola ad un pubblico abituato più a grosse produzioni che a prodotti sperimentali. In questo anche la regia gioca un ruolo importante: tutt’altro che spicciola, si attesta infatti su un ottimo livello ed è capace di mettere in scena il tutto con chiarezza e senza confusione, costruendo perfettamente uno scambio continuo tra tensione ed orrore che mantiene lo spettatore in costante attenzione per tutto il primo e secondo atto. Bisogna sottolineare come il terzo atto, con la virata di genere ed atmosfera che subisce, cambia di molto il mood  dell’intero prodotto e dello spettatore nel visionare le vicende, senza però danneggiare eccessivamente l’ottimo lavoro registico attuato dalla coppia De Feo-Strippoli.

Dal lato della recitazione, ci si distacca dal prodotto “neutro” e si entra pienamente nella cinematografia italiana. Ogni personaggio viene da un luogo diverso e questo si percepisce soprattutto nel parlato, con cadenze dialettali particolarmente presenti (soprattutto nel caso di Fabrizio, interpretato da Francesco Russo) che se da un lato risultano piacevoli nel mostrare il carattere reale dei personaggi, dall’altro rendono in alcuni frangenti più complessa la comprensione delle battute, specialmente quando sussurrate. L’elemento forte del gruppo è sicuramente Elisa, interpretata da una Matilde Lutz strepitosa che riesce a portare su schermo un ottima interpretazione della “classica ragazza normale” che finisce per ritrovarsi in un vero e proprio inferno.

Arrivati alla fine della recensione, urge soffermarsi un attimo sul perché questo film sia incompreso. La colpa di tutte le critiche e della delusione che il pubblico sta riversando su questo prodotto non è da imputare sul risultato finale della pellicola stessa, ma sul produttore Netflix. Il film è infatti stato venduto dalla piattaforma non solo come nuovo o “fresco”, ma addirittura come un qualcosa di innovativo e che avrebbe cambiato per sempre il genere, almeno qui in Italia. Da qui le alte (forse anche eccessive) aspettative del pubblico, che ritrovatosi con un ottimo prodotto che motiva sì i cliché ma che non introduce cambiamenti epocali, ha gridato quindi allo scandalo affossando la pellicola con aspre e pesanti critiche. Non è certo la prima volta (ricordiamo quell’ Hereditary  esordio alla regia di Ari Aster con cui molti rimasero delusi perché venduto come “il nuovo esorcista” e che venne quindi affossato e additato come un film pessimo semplicemente per non essere stato all’altezza delle aspettative) e non sarà l’ultima, dispiace però che un pregevolissimo prodotto tutto italiano, con anche delle tematiche importanti di fondo, verrà ricordato soltanto per questo gigantesco ed orrendo “scam”.

CONCLUSIONI

Messa da parte la pubblicità fatta da Netflix, la pellicola si presenta come un ottimo horror italiano nettamente sopra la media. La regia di De Feo-Strippoli dona vitalità ad una sceneggiatura solida, messa in scena da un risicato ma valido cast di attori (tra cui spicca su tutti la Lutz) e che riesce a mischiare bene le carte in tavola, partendo come il classico film dell’orrore pieno di cliché, per poi non solo inserire tematiche più profonde ma anche motivare questa sua (solo appartente) superficialità e banalità. Rimangono alcuni difettucci, come un terzo atto leggermente sotto tono ed una parlata in alcune situazioni troppo marcata verso il dialetto, ma ciò non rovina comunque l’esperienza dello spettatore che si ritroverà sicuramente coinvolto e spaventato per buona parte della pellicola, purtroppo già eccessivamente bistrattata.

P.S.: nonostante non sia un film Marvel, si consiglia di non terminare subito la visione alla comparsa dei titoli di coda.

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Mattia Bianconi, Redattore