IN TEMPO DI GUERRA

Il tempo è sospeso, sfasato, si disgrega, si annulla, salta per aria subito, come le schegge di una granata in frantumi, in 1917 (2019), l’ultimo film di Sam Mendes ambientato durante la sanguinosa Grande Guerra, che vede opposti sul fronte occidentale l’esercito inglese e le truppe germaniche, con queste ultime a fingere astutamente una ritirata strategica, per attirare l’ignara armata nemica in un massacro che sarebbe decisivo per le sorti del conflitto. 

I giovani caporali inglesi Tom Blake (Dean-Charles Chapman) e William Schofield (George MacKay, di recente visto sul tavolo politico di un altro film storico a sfondo bellico, Monaco – Sull’orlo della guerra, 2021) ancora non sono usciti dal campo base per la missione loro affidata – consegnare un prezioso dispaccio al colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch) per impedire un attacco suicida – che già si imbattono nel gruppo agli ordini del tenente Leslie (Andrew Scott), così frastornato dagli scontri coi tedeschi da aver – appunto – smarrito il senso del tempo e il conto dei giorni (“Sa dirci che giorno è?”). 

Anche al riparo del fuoco amico, senza nemmeno allontanarsi dalla safe zone, ancor prima dell’approdo nella no man’s land abbandonata, bastano pochi passi, pochi metri di percorso lungo la linea scavata nella trincea, perlustrata in senso (di marcia) contrario dalla coppia di soldati, e dalla m.d.p. che li pedina con gli stessi travelling kubrickiani a seguire o precedere di Orizzonti di gloria (1957), perché già nel racconto precipiti la consueta scansione temporale. E perché il corso degli eventi venga risucchiato, come in un cratere sul terreno, nella dimensione puramente spaziale del movimento cinetico. Ancorato ai corpi che – letteralmente – si caricano a spalle e portano avanti la narrazione come un compagno ferito da non lasciare indietro. 

L’ORA PIÙ BUIA 

Unità mobile di luogo e azione in cui si disperde il tempo. Il tempo imploso come costante inscindibile dalla progressione in piano-sequenza. La perdita definitiva delle coordinate temporali è segnata nel dettaglio dell’orologio rotto, in seguito allo scontro di Schofield col cecchino tedesco. La sola “bussola” di riferimento resta così il primitivo alternarsi del giorno e della notte, il ritmo naturale degli elementi fondamentali in cui l’azione dell’uomo e la missione del soldato sono costrette a rallentare fino a fermarsi (gli stessi fattori in gioco nel formarsi dell’immagine cinematografica): il buio e la luce, le zone in ombra e le strade illuminate a giorno dai razzi in cielo e dai bagliori fiammeggianti della cittadina sventrata. 

Eccezionale lavoro iridescente del DOP Roger Deakins, che ci getta negli occhi ora la cappa nebbiosa dei fumi delle bombe e la sporcizia verdastro-marrone del pantano melmoso, ora il bianco accecante e desertico delle polveri diffuse nell’aria, ora una vischiosa e ottenebrante coltre di livido blu notte. Il tutto saldato a un martellante sound design che oscilla tra rimbombi assordanti e il silenzio ovattato del paesaggio, rafforzando la fisicità sensoriale e l’impatto esperienziale di questo war movie che rimane al guado tra un controllatissimo sparatutto videoludico in terza persona e un impressionante effetto di “realtà aumentata” della sporcizia della guerra senza filtri fotografici, già realizzato da Steven Spielberg nello sbarco a Omaha Beach in Salvate il soldato Ryan (1998).

ARMI DELL’INGANNO E MACCHINE DA GUERRA 

La teorica e ingannevole suggestione hitchcockiana (Nodo alla gola, 1948) del film tutto in piano-sequenza (c’è la percezione di un’unica ripresa in continuità da parte dello spettatore, con le interruzioni dei cut abilmente mascherate dall’invisibile lavoro di raccordo e montaggio), poteva far sospettare l’ancoraggio al moto perpetuo nella concitazione di assalti e ritirate, incessantemente avanti e indietro sul campo di battaglia come in un opacizzato terreno visivo minato dal pericolo costante (così è, in parte). 

Insomma che Mendes si facesse ingolosire a tal punto dalla sfida tecnica da bombardarci assiduamente, senza tregua né soste dello sguardo, con l’ipercinetismo convulso e caotico della cinepresa. Invece, pur restando incollato agli spostamenti frenetici e al percorso a tentoni e a stazioni del caporale, il regista è capace di distinguere e articolare il lavoro del piano-sequenza: tra il suo senso di mobilità progressiva e quello di isolamento protettivo che trattiene l’unità di emozione: utilizzandolo cioè anche in funzione contemplativa e introspettiva nei confronti dei personaggi, delle loro fugaci epifanie di riflessione e umanità nel bel mezzo della distruzione generale. 

Indugiando sulla tregua e la stasi, soffermandosi su degli a parte di silenzi e dialoghi nascosti, sull’intensità del dolore, l’amicizia, la pietà, la compassione (il caporale che stringe Blake morente, il breve interludio con la ragazza francese), su dettagli che condensano il senso dell’onore e il valore degli affetti (lo scambio degli anelli, la stretta di mano finale col fratello di Blake, le fotografie insanguinate). Con un uso narrativo consapevole del senso della tensione dispiegata nella profondità di campo (il soffocamento del giovane tedesco, filmato in primo piano con la suspense creata dalla sagoma nera del compagno ubriaco che si avvicina dallo sfondo).

Ci sarà un ché di retorico, ma rimangono la grande sapienza e l’equilibrio nel gestire i diversi step narrativi, dal picco di massima allerta all’inattesa distensione intimista. Cambi di passo ottimamente serviti dallo spartito del fedele Thomas Newman, variando dalle sottili e insinuanti micro-vibrazioni di cui è specialista alle magniloquenti fanfare che inevitabilmente associamo all’immaginario del cinema bellico

ORIZZONTI SENZA GLORIA

A conti fatti, una sfida suggestivamente vinta sul piano tecnico, immersivo ed emotivo, al netto di un iperrealismo stilistico così marcatamente pilotato dal cineoperatore da campo Mendes. Con, in più, un campo di battaglia interpretativo aperto come una voragine su un caldissimo fronte geopolitico interno e internazionale: 1917 è arrivato sugli schermi pressoché a ridosso dell’annuncio dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (nel frattempo formalmente attuata senza ripensamenti). 

Una Brexit della quale, nel film di Mendes, non è forse troppo azzardato rileggere le spinte contrapposte e gli schieramenti in gioco, nell’affannosa e disperata “corsa contro il tempo” di questi giovani capitani coraggiosi che tentano di fermare un piano suicida che i vecchi (politici) comandanti hanno predisposto e deciso altrove, condannandosi a sicura sconfitta: questo il senso della loro marcia contraria in trincea, della trascinante corsa di Schofield che si sviluppa lunga una linea diametralmente perpendicolare – e quindi opposta – a quella dell’esercito ufficiale. Gli “uomini contro” il tempo e la Storia di Sam Mendes, su un altro fronte rispetto a quelli di Francesco Rosi sull’Altipiano di Emilio Lussu, ma con la stessa volontà di chiamarsi fuori dalle patologiche follie autodistruttive della guerra e dei suoi scriteriati commander-in-chief

Non sarà quindi un caso che, abbracciando un ferreo spirito di inclusione, la British Army venga giustamente rappresentata in tutte le etnie e confessioni (probabilmente anche per recepire le critiche mosse alle truppe all white di Christopher Nolan sulla spiaggia di Dunkirk, 2017). Su un furgoncino in transito, trova spazio perfino una gag linguistica con una recluta musulmana, che potrebbe facilmente ricordare un bisnonno del sindaco londinese Sadiq Khan. 

Come non è un caso che i soldati inglesi, pur patriotticamente distinti dalla ferocia dei villain “crucchi”, e nonostante il folto spiegamento pluri-generazionale di icone UK (da Colin Firth a Richard Madden), siano i meno autarchicamente british mai visti al cinema, capaci di profondo spirito di solidarietà e umanesismo transnazionale, al di sopra delle bandiere di appartenenza (il soccorso al nemico di Blake a costo della vita, la generosità di Schofield che offre protezione donando cibo e risorse alla ragazza francese). 

Il senso della mano tesa, del ponte gettato, contro il gusto di combattere per combattere dei generali (da cui mette in guardia il capitano Smith di Mark Strong): la guerra per la guerra, la stessa ottusa tautologia del “Brexit means Brexit”. C’è ancora tempo per mettersi in salvo, o è (stata) una battaglia persa in partenza?

Questo articolo è stato scritto da:

Daniele Badella, Redattore