Nel corso della sua sessantennale carriera, Sidney Lumet, regista, produttore, sceneggiatore e attore americano, ha saputo plasmare un personalissimo sguardo poliedrico, affrontando generi, temi e storie differenti. In seguito al suo brillante esordio dietro la macchina da presa, La parola ai giurati (12 angry men, 1957) – considerato, ad oggi, fra i più folgoranti debutti della storia del cinema – Lumet ha lasciato il segno nel cinema americano non solo attraverso il suo stile registico, ma anche per la sua capacità di entrare in sintonia con gli interpreti dei suoi film. Impossibile non ricordare Serpico (1973) e Quel pomeriggio di un giorno da cani (Dog Day Afternoon, 1975), film che hanno consentito ad Al Pacino di sbarcare il lunario, nonché Assassinio sull’Orient-Express (Murder on the Orient Express, 1974), Il verdetto (The Verdict, 1982) fino all’ultima opera, Onora il padre e la madre (Before the Devil Knows You’re Dead, 2007).
Nel 1976, il cammino di Sidney Lumet si incrocia con quello di Paddy Chayefsky, sceneggiatore e drammaturgo statunitense al tempo già vincitore di due Oscar per le sceneggiature dei film Marty, vita di un timido (Marty, D. Mann, 1955) e Anche i dottori ce l’hanno (The Hospital, A. Hiller, 1971). Dopo anni all’attivo come autore per la televisione, Chayefsky matura l’intenzione di scrivere una sceneggiatura incentrata sulla critica verso il mondo dei grandi broadcaster americani, focalizzando l’attenzione non sono verso la cosiddetta “telecrazia”, ma anche verso gli effetti della televisione sulla società americana, rea di aver provocato l’abbassamento dell’indice dell’attenzione da parte del pubblico (anticipando, di conseguenza, l’attuale dibattito intorno alla fruizione di contenuti quali reels e tik-tok). Da questa idea prende forma il film Quinto Potere (The Network, 1976), film diretto da Lumet che affronta tali questioni scandalizzando il pubblico americano degli anni Settanta.
Howard Beale: la macchina difettosa
Signore e signori, vorrei a questo punto annunciare che io sarò costretto ad abbandonare questo programma fra due settimane, perché ho un basso indice. Dato che questa era l’unica cosa che mi dava soddisfazione nella vita, ho deciso di suicidarmi: mi farò saltare le cervella durante questo programma, fra una settimana. Quindi, martedì prossimo mettetevi in ascolto. Le pubbliche relazioni avranno una settimana per promuovere lo spettacolo. L’indice d’ascolto dovrebbe salire alle stelle: cinquanta punti, almeno. – Howard Beale (Peter Finch)
Howard Beale, anchorman di lunga data presso l’emittente televisiva UBS, ha appena perso tutto quando pronuncia queste parole scioccanti. Dopo la morte della moglie, il suo poco appeal causato dalla sua perenne tristezza e dall’alcolismo ha causato un abbassamento dell’indice di ascolti: la dirigenza ha in mente di sostituirlo di lì a poco. In un momento di lucida follia (o umanissima razionalità) Beale afferma che la settimana successiva si suiciderà in diretta: prontamente viene licenziato; tuttavia, gli viene concessa un’ultima chance per un’uscita di scena “di classe”. Ma Howard Beale non retrocede di un passo: i suoi sproloqui sull’umana esistenza, su Dio e su questioni di carattere filosofico, politico e sociale fanno di lui il “pazzo profeta dell’etere”; improvvisamente, gli ascolti aumentano a dismisura, e Howard diviene il protagonista di una sorta di giornale-spettacolo, con il benestare dell’amministratore delegato Frank Hackett.
Questa è la parabola tragicomica di Howard, che da rispettabile volto della televisione statunitense diviene un predicatore grottesco che impartisce le proprie verità per mezzo del piccolo schermo. L’anomalia incarnata dal protagonista, trasformatosi in “macchina difettosa”, viene assoggettata ai dettami dell’indice di ascolti, delle regole dello spettacolo il cui successo è determinato proprio dall’anomalia stessa. In termini contemporanei, potremmo dire che il suo comportamento sui generis lo fa diventare virale. Fondamentale, in questo senso, è l’affermazione di Diana Christensen (Faye Dunaway), cinica e tenace responsabile dei programmi della UBS: “Gli arabi hanno deciso di aumentare il prezzo del petrolio di un altro 20%, la CIA è stata denunciata da un senatore a cui apriva la posta, c’è una guerra civile in Angola e un’altra a Beirut, il comune di New York rischia ancora il fallimento, hanno finalmente arrestato Patricia Hearst… e tutta la prima pagina del Daily News è Howard Beale!”
Howard Beale, che nella libertà di espressione causata dal crollo del suo piccolo mondo aveva trovato la sua autoaffermazione senza barriere, diviene così una macchina difettosa assoggettata al sistema del broadcasting, un leone ingabbiato che continua a ruggire dinanzi ai visitatori. Beale è l’eroe malgré lui, un profeta che, nel denunciare la disumanizzazione delle persone, diviene egli stesso il campione di tale disumanizzazione. Allora il suo celeberrimo Mad As Hell Speech (“I am mad as hell and I am not gonna take this anymore!”/”Sono incazzato nero e tutto questo non l’accetterò più!”) – un avanguardistico esempio di tormentone virale trasmesso non mediante i post, bensì attraverso la voce umana – non è più il grido di libertà di una popolazione oppressa, bensì l’emblema della capacità del medium televisivo di assoggettare il pensiero individuale degli spettatori.
Diane Christensen: dacci oggi il nostro intrattenimento quotidiano
[…] il popolo americano ha le scatole rotte. Ha preso batoste in ogni sua parte: dal Vietnam, al Watergate, l’inflazione, la depressione, ha devastato, ha sparato, si è fregato con le sue mani, ma niente lo solleva. […] il popolo americano vuole assolutamente qualcuno che esterni la sua rabbia. Non ho fatto che dirvelo quando ho preso questo lavoro sei mesi fa, che voglio programmi arrabbiati! – Diana Christensen (Faye Dunaway)
Se qualche decennio dopo il cantante Marilyn Manson asseriva, nella sua intervista nel documentario Bowling a Columbine (Bowling for Columbine, M. Moore, 2002), che gli americani vivono in un costante stato di paura causato dalla programmazione televisiva, al tempo di Quinto Potere la situazione politica e socioculturale era ben diversa. Diana Christensen, responsabile della programmazione presso l’emittente UBS, è ben cosciente del desiderio fisico degli americani di sfogare la propria rabbia generata dalla guerra in Vietnam e dallo scandalo Watergate. Interpretata da una brillante Faye Dunaway (che vinse l’Oscar per la sua interpretazione), Diana è una giovane arrivista senza scrupoli che sfrutta lo sfogo di Howard per trarne profitto e far decollare la propria carriera. A differenza di Howard, la donna è artefice e promotrice di quel sistema che il protagonista rigetta nel suo Mad As Hell Speech: Diane accetta “tutto questo”, e incanala la rabbia provata dal pubblico americano nell’indice di ascolti.
Come una “Gordon Gekko” delle telecomunicazioni, Diane Christensen non ha scrupoli morali, nemmeno quando desidera proporre in televisione un documentario violento girato dal gruppo estremista underground denominato Esercito di Liberazione Ecumenico – la cui presenza nel film sarà di fondamentale importanza. Il suo arrivismo si esplica anche nella sua relazione clandestina con Max Schumacher (William Holden), presidente della divisione notizie, un rapporto che destruttura la tradizionale virilità maschile, giacché Max è un uomo fragile e insicuro.
Louise Schumacher: il disfacimento del matrimonio borghese
Nella notte degli Oscar del 1977, Quinto Potere conquistò dieci candidature e quattro statuette: Miglior Attore Protagonista (Peter Finch – postumo), Miglior Attrice Protagonista (Faye Dunaway), Miglior Sceneggiatura Originale (Paddy Chayefsky) e Miglior Attrice Non Protagonista (Beatrice Straight). Quest’ultimo premio ha un che di singolare nella storia degli Academy Awards. Con soli cinque minuti e due secondi, Beatrice Straight detiene ad oggi il record per la più breve interpretazione di sempre premiata con un Oscar. In questo breve minutaggio in scena, il suo personaggio, Louise Schumacher, si confronta con il marito Max, il quale confessa alla moglie di aver intrapreso una relazione con Diana Christensen.
Va’ dove ti pare, vai in albergo, va’ a stare con lei, ma non tornare! Perché dopo venticinque anni di costruire e tirare su una famiglia e tutti gli inutili dispiaceri che ci siamo inflitti a vicenda, che possa morire se me ne starò qui a sentirmi dire che sei innamorato di un’altra! Perché questo non è il week-end di lavoro con la segretaria, vero? O una puttana che hai rimediato dopo aver preso una bella sbronza, questa è la tua grande avventura d’amore, non è vero? Il tuo ultimo ruggito di passione prima di arrenderti all’immancabile vecchiaia! È questa che riservi per me? È questa la mia parte? Lei ha la tua ultima passione e io la tua senilità? Che cosa pretendi che faccia? Dovrei starmene a casa a lavorare a maglia mentre tu rientri furtivamente come un ubriacone pentito? Sono tua moglie, per Dio! E se non riesci a provare un po’ di passione per me, quello che chiedo è rispetto e lealtà assoluta! – Louise Schumacher (Beatrice Straight)
In soli cinque minuti, Beatrice Straight – grande interprete non solo nel mondo del cinema ma anche, e soprattutto, del palcoscenico teatrale – decostruisce la favola del matrimonio borghese americano, apponendo una cesura rispetto all’ideale idilliaco reiterato negli anni Cinquanta e Sessanta dalla televisione. Nel suo monologo, le criticità della vita coniugale vengono a galla con veemenza, e le sue parole assumono una valenza universale e non più limitata al matrimonio del suo personaggio con Max. Le sue parole, in questo peculiare Mad As Hell Speech, mettono a nudo la volontà di non accettare più le condizioni del matrimonio borghese, e non sono così lontane dalle verità pronunciate da Howard in televisione. Anche Louise, a suo modo, apre la finestra e urla a gran voce: “Sono incazzata nera e tutto questo non lo accetterò più!”
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