Disclaimer: All’interno dell’articolo saranno presenti spoiler sulle vicende realmente accadute e sulle modalità in cui la serie le mette in scena
Al true crime siamo ormai tutti abituati: non che si tratti di un genere completamente nuovo, ma è sotto gli occhi di tutti come, nel corso degli ultimi anni, le piattaforme abbiano raccolto il testimone dalla televisione generalista per creare un vero e proprio marasma di produzioni che si arricchisce sempre di più. Per anni in Italia i casi di cronaca nera sono stati appannaggio quasi esclusivamente di programmi in chiaro a sfondo (più o meno) giornalistico, passando poi per la “via di mezzo” della pay-per-view manifesta principalmente in quella Sky autrice di numerosi prodotti degni di nota costruiti sulla formula della docu-serie, di cui un esempio perfetto è proprio Sarah. La ragazza di Avetrana, prodotta da Grøenlandia e tratta dal libro omonimo con l’obiettivo di ricostruire uno dei casi di nera più sconvolgenti degli ultimi anni.
È forse affidabile a Netflix il manto di aver scommesso fortemente su una programmazione di questa tipologia tanto che, a voler escludere la grande quantità di produzioni estere, in Italia vanta nel suo catalogo SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, Vatican Girl: La scomparsa di Emanuela Orlandi e Wanna: produzioni rivolte a target diversi, con argomenti diversi che spaziano attraverso dinamiche che, unite, permettono di manifestare un forte interesse da parte della piattaforma e di far sì che, di queste storie, ne rimanga sempre traccia.
Proprio Netflix solo quest’anno ha arricchito il proprio catalogo con Il caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio e Per Elisa – Il caso Claps, rispettivamente una docu-serie e una miniserie capaci entrambi di attrarre il pubblico e far parlare di sé.
Mai giudicare una serie dalla locandina
Sono forse talmente tanti i prodotti di questi tipo ormai che, all’ennesimo annuncio da parte di una piattaforma di un nuovo true crime, si manifesta di già una sensazione di ridondanza tanto da chiederci “ma ce n’era davvero bisogno?”. Sensazione ulteriormente acuita dall’uscita di un trailer poco convincente e di una locandina dalle scelte di design decisamente discutibili, tanto da far bollare il prodotto dalla maggior parte dell’utenza come la “classica operazione all’italiana”: battiamo il ferro finché è caldo spendendo il minimo, perché se qualcosa va di moda gli spettatori tanto arrivano. A smuovere le acque ci pensa però un avvenimento esterno: il 23 ottobre la serie viene infatti messa in stallo a causa delle richieste del sindaco della città, chiedendo di eliminare dal titolo il nome “Avetrana” con il rischio che, qualora la produzione si rifiutasse, il prodotto sarebbe potuto scomparire per sempre.
Inevitabile a questo punto l’interesse spasmodico da parte del pubblico al quale, qualora gli venga impedita la visione di qualcosa, cercherà a quel punto di visionarla in qualsiasi modo possibile, con conseguenti articoli su articoli riguardanti l’argomento affiancati a recensioni scritte e video di coloro che, al Festival del Cinema di Roma, la serie erano riusciti a vederla quasi come “unici spettatori di un miracolo censurato”.
La situazione si sarebbe poi risolta in maniera estremamente semplice (e prevedibile): la produzione rinuncia ad “Avetrana” nel titolo mantenendo soltanto Qui non è Hollywood – inizialmente pensato come sottotitolo – e la serie sbarca sotto gli sguardi (ora) affamati di migliaia di spettatori su Disney+ il 30 ottobre. C’è però, di fatto, una sorpresa in tutta questa storia: la serie è, a tutti gli effetti, un prodotto che ha dell’incredibile.
Un enorme valore produttivo
Fondamentale, prima di tutto, spendere due parole su chi sta dietro al progetto: quasi a sorpresa si ritrova infatti Grøenlandia stessa che, dopo la docu-serie, ritorna a trattare la stessa storia utilizzando ora la forma della miniserie gestendo però in contemporanea anche l’uscita su Netflix della seconda stagione de La legge di Lidia Poet e su Sky di Hanno ucciso l’uomo ragno, creando in questo modo un quadro complessivo estremamente roseo visti i grandi numeri che queste produzioni stanno manifestando.
A dirigere la serie troviamo poi Pippo Mezzapesa – conosciuto ai più per aver diretto Ti mangio il cuore – che ritroviamo qui anche nel team di sceneggiatori incaricati di adattare il libro di Gazzanni e Piccinni, utilizzato ancora una volta come soggetto per la serie.
Se è vero che alcune produzioni televisive italiane hanno, di fatto, mostrato i muscoli anche in relazione a produzioni estere ben più blasonate, rimane comunque vero come un grosso sforzo produttivo rimanga nel belpaese legato a prodotti inevitabilmente inferiori a quanto vediamo arrivare da oltre i confini. Tutte le preoccupazioni legate al pessimo marketing della serie, che a tutti gli effetti sembrava collocare il prodotto proprio in quest’ultima categoria, vengono immediatamente spazzate via già dai primi minuti: commistionando reparti creativi e tecnici la serie mette infatti in scena quattro puntate dalla lunghezza di poco superiore ai 60 minuti la cui qualità rimane costantemente altissima senza sbavature.
Da ogni inquadratura si riesce a percepire il calore dell’asfalto, la freschezza delle birre ghiacciate e dei gelati, l’odore del sudore e del terriccio lavorato nei campi, piombando indietro a un 2010 che di finzione non trasmette nulla risultando però al tempo stesso estremamente iconico, nel bene e nel male. Le automobili con lo stereo come unico optional e i finestrini a manopola, i telefonini a conchiglia con i ciondoli che si trovavano nei pacchetti di patatine, i primi televisori piatti nei locali e quelli ancora al tubo catodico nelle abitazioni a cui si aggiunge un vestiario e un insieme di capigliature divenute ormai iconiche dimostrano un grande dispendio di forze nel ricreare, nella maniera più fedele possibile, ciò che venne mostrato dai costanti e innumerevoli servizi giornalistici dell’epoca.
In puro stile USA, la serie si compone inoltre di una colonna sonora di brani su licenza che spaziano dalle italianissime Nel sole di Albano e Tranne te di Fabri Fibra a brani internazionali come Complicated, Who Wants To Live Forever o Exit Music (For Movies) – il cui utilizzo nasconde, in maniera nemmeno troppo velata, un significato relativamente alle scene che accompagnano – passando poi per i brani originali composti da Yakamoto Kotzuga e alla credit song La banalità del male composta appositamente da Marz e Marracash.
Fedeltà storica, interpretazione narrativa
Nella scelta della miniserie come strumento narrativo si manifesta l’intrinseca intenzione degli autori di voler raccontare gli eventi reali inserendo però diversi grandi di interpretazione al tutto. Da un lato abbiamo quindi il realismo storico, attraverso cui si cerca di ricreare il tutto nella maniera più realistica e verosimile possibile: oltre agli (imprescindibili) elementi nominati poco sopra, grande sforzo è stato posto nella composizione di un cast che rassomigliasse il più possibile alle persone che questa storia l’hanno vissuta in prima persona e che trova piena manifestazione negli oltre 20 kg di trucco applicati a Vanessa Scalera per la sua trasformazione in Cosima Serrano e nell’acquisizione da parte di Giulia Perulli (affiancata da una nutrizionista) di 22 kg per ottenere una fisicità conforme a quella della vera Sabrina Misseri. A ciò si aggiungono numerose sequenze sparpagliate nelle varie puntate che riproducono con estrema fedeltà le situazioni realmente mostrate davanti alle telecamere, tanto da risultare impressionanti quando messe a confronto, a cui fa da contraltare la totale mancanza di girato legato all’assassinio, mostrato brevemente come di sfuggita, volendo ulteriormente rimarcare una nebulosa oscurità che ancora aleggia sulla verità di quel momento.
Al tempo stesso la serie decide di dare al racconto una forte componente emotiva, traducibile innanzitutto nel focus degli episodi: ad ognuno è infatti assegnato il nome di un personaggio che risulterà il focus principale di quei sessanta minuti. Non ci si ritrova però davanti a quattro prospettive diverse della stessa vicenda, quanto piuttosto alla volontà di donare il tempo necessario a sviscerare questi personaggi per poterli comprendere appieno ed è presto chiaro come questo fosse il vero obiettivo della serie. Ad un primo episodio – Sarah – con protagonista la vittima e che racconta i giorni precedenti all’omicidio occupandosi principalmente di introdurre i vari personaggi e le loro dinamiche, fanno da contraltare i tre episodi successivi – Sabrina, Michele e Cosima – attraverso i quali possiamo comprendere appieno le dinamiche famigliari e i demoni personali che attanagliano ognuno dei colpevoli, il tutto attraverso scene di fortissimo impatto (basti pensare alla rabbia di Sabrina nel vedersi riflessa allo specchio o al pianto di Michele sul trattore).
Per rendere ancora più potente e funzionale tale struttura giocano poi un ruolo fondamentale le sequenze oniriche: già il primo episodio sembra essere strutturato come un sogno della morente Sarah nel quale, nel ripercorrere i giorni precedenti alla morte, elementi reali si mescolano ad altri volontariamente simbolici a manifestare l’inevitabile stretta del destino, ma è nelle tre ore successive che l’assurdo cresce esponenzialmente, con l’apparizione del fantasma di Sarah a Sabrina e Benedetta o la preghiera ripetuta e la stagnazione dell’acqua sempre più soffocante nell’episodio dedicato a Michele. A tutto questo si aggiunge infine un fortissimo simbolismo che permea numerose sequenze – e in cui Mezzapesa dimostra una grande padronanza del mezzo: il “muscio” – cucciolo di gatto destinato a morire – a cui sembrano prestare attenzione soltanto Sarah, con un amore innocente e incondizionato, e Zio Michele, legato ad esso ma rassegnato al destino di morte, come foreshadow del destino della giovane ragazza e dell’ossessione dello zio che lo porterà al crollo; la statuetta rotta durante la diretta in cui viene ritrovato il corpo di Sarah e che Sabrina cercherà, inutilmente, di ricomporre come impossibile sarà, da quel momento in poi, rimettere insieme i cocci di una famiglia distrutta ed a cui mancherà per sempre un frammento; il ballo di Sabrina – e poi Cosima in un secondo momento – sulle note di Obsesion di Aventura e Judi Santos, a piena manifestazione dell’ossessione della prima nei confronti di Ivano (che la porterà poi a compiere l’omicidio) e del legame intrinseco tra madre e figlia. Come non citare poi la camminata finale di Sarah lungo le strade deserte di Avetrana, accompagnata dalle note di Who Wants To Live Forever dei Queen e sola come l’Aldo Moro sul finale di Buongiorno, notte di Marchio Bellocchio, completamente ignorata dai giornalisti che, passandole affianco, corrono verso Cosima, verso lo scoop. Perché quello che alla fine a tutti interessa, più che fare giustizia ai morti, è sbattere il mostro in prima pagina.
“Sai che il male è banale, ma è comprenderlo che è complesso
Se ci affascina tutti, è perché tutti lo abbiamo dentro
Ogni caso irrisolto, poi, è soltanto specchio del nostro”
(La banalità del male (End credit song “Qui non è Hollywood”) – Marz, Marracash)

Scrivi un commento