7 motivi per cui è il premio più importante e seguito al mondo

Denigrati, bistrattati, talvolta persino insultati. Parliamo degli Oscar, a cui i cinefili più intransigenti spesso riservano un trattamento ingeneroso, che ne ignora la storia e i meriti. Sì, perché tra gaffe clamorose ed errori epocali, gli Academy Awards – soprannominati Oscar da Margaret Herrick che, vedendo la statuetta dorata, affermò somigliasse a suo zio Oscar – hanno segnato la storia del cinema e l’hanno punteggiata di momenti memorabili, entrati a far parte dell’immaginario collettivo. D’altronde la awards season di cui gli Oscar sono il coronamento è forse il momento dell’anno in cui si registra un maggior interesse generalizzato verso il mondo del cinema.

Oggi proveremo a spiegare – in 7 punti – perché gli Oscar restano il premio cinematografico più importante al mondo, nonché il più amato e seguito.

1. Perché la storia degli Oscar è la storia del cinema

Questo è un punto essenziale. Scorrere l’albo d’oro dei premiati agli Oscar è davvero come fare un viaggio nella storia del cinema. Per quanto infatti l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (l’istituzione che attribuisce il riconoscimento) abbia sempre o quasi posto al centro delle proprie premiazioni il grande cinema americano, gli Oscar sono stati anche capaci di abbracciare alcune tra le principali correnti artistiche mondiali e hanno spesso segnato grandi cambiamenti industriali, che avrebbero rivoluzionato il modo di fare cinema.

Pensiamo a quando nel 1948 venne istituito un Oscar speciale (in seguito trasformatosi in quello come Miglior film straniero) per premiare Sciuscià, capolavoro neorealista di Vittorio De Sica. L’Academy si rese conto che qualcosa stava accadendo in Italia: un nuovo modo di intendere il cinema e il suo linguaggio stava nascendo. Solo due anni dopo, peraltro, venne premiato anche Ladri di biciclette, sempre diretto da De Sica.

Vittorio De Sica con uno dei quattro Oscar vinti nel corso della sua carriera.

L’Academy, infatti, già negli anni ‘40 e ‘50 guardava con interesse all’Europa, fucina di talenti e di correnti artistiche molto lontane dal gusto hollywoodiano, che ormai si era codificato nel linguaggio del cinema americano classico. Gli Oscar furono tra i primissimi a riconoscere il talento dello svedese Ingmar Bergman, del giapponese Akira Kurosawa e dell’italiano Federico Fellini, poi divenuti il simbolo delle proprie cinematografie nazionali. I film di questi artisti vinsero più volte la statuetta dorata per il miglior film straniero (3 volte Bergman, 2 Kurosawa, 4 Fellini), ma i registi stessi furono candidati addirittura nelle ambite categorie di miglior film e miglior regia.

Gli Oscar, inoltre, riconobbero spesso i talenti di grandi dive straniere (Ingrid Bergman, Anna Magnani, Sophia Loren, per citarne alcune), premiandole e cercando così di attrarle nella grande industria cinematografica americana. L’Academy, insomma, si guardava intorno e costruiva la sua personale storia del cinema, fondata sì sullo strapotere del cinema hollywoodiano, ma anche su ciò che di più interessante aveva luogo nel contesto cinematografico globale.

A partire dagli anni ‘70, poi, fu l’Academy stessa a segnare la fine definitiva del cinema classico statunitense (già sul viale del tramonto dalla metà degli anni ‘60), quando iniziò a premiare i giovani registi della New Hollywood, che avrebbero dominato lo scenario degli Oscar per molti anni: William Friedkin (premiato per Il braccio violento della legge nel 1972), Francis Ford Coppola (per Il padrino e Il padrino – Parte II, rispettivamente nel 1973 e nel 1975), Woody Allen (Io e Annie nel 1978) e Michael Cimino (Il cacciatore nel 1979). Martin Scorsese, Robert Altman e Steven Spielberg, peraltro, raccolsero in quegli anni infinite candidature con i loro film.

Più tardi, negli anni ‘90, persino alcune vittorie discutibili come quella di Shakespeare in love possono essere definite storiche e significative per l’evoluzione della storia del cinema. In quel caso, per la prima volta, grazie alla campagna promozionale instancabile di Harvey Weinstein e Lisa Taback (ora stratega Oscar di Netflix), un film di uno studio indipendente (la Miramax) riuscì a prevalere su pellicole prodotte e distribuite da grandi major (Salvate il soldato Ryan, ad esempio). Si trattò, innegabilmente, di un premio collegato a una mutazione industriale capitale e a una ridistribuzione del potere tra grandi attori dello scenario hollywoodiano, che avrebbe poi continuato a lasciare il segno negli anni successivi.

La controversa premiazione di Shakespeare in Love, vincitore di 7 Oscar.

Gli Oscar, per concludere, con le loro scelte hanno rappresentato e influenzato alcune tra le principali tendenze artistiche e industriali della storia del cinema.

2. Perché hanno premiato infiniti capolavori

Quante volte si sente dire che gli Oscar non premiano la qualità? Può darsi che sia così: gli Academy Awards, in fondo, sono una gigantesca (auto)celebrazione industriale in cui la qualità dei singoli prodotti è tutto sommato secondaria. Eppure non dobbiamo dimenticare che gli Oscar hanno premiato infiniti capolavori con la C maiuscola. Da Accadde una notte a Via col vento, da Casablanca a Eva contro Eva, da L’appartamento a Lawrence d’Arabia, da Il padrino a Il cacciatore, passando per Qualcuno volò sul nido del cuculo. Solo negli ultimi vent’anni hanno vinto film eccezionali come Il signore degli anelli – Il ritorno del re, Million Dollar Baby, Non è un paese per vecchi, The Hurt Locker. E si potrebbe continuare. Certo, nel mezzo sono stati riconosciuti anche film più mediocri, ma sono tanti i capolavori che possono vantare la vittoria del premio più importante del mondo.

Billy Wilder con i 3 Oscar vinti per “L’appartamento”, uno dei suoi capolavori.

3. Perché agli Oscar sono stati pronunciati discorsi indimenticabili

Uno dei motivi principali per cui la cerimonia degli Academy Awards attira ogni anni milioni di telespettatori è rappresentato dai celebri acceptance speeches – i discorsi con cui i premiati accettano il riconoscimento attribuitogli. Molti di essi sono diventati celebri ed entrati a far parte dell’immaginario collettivo. Pensiamo al nostro Bernardo Bertolucci, unico italiano riuscito a conquistare l’ambita statuetta come miglior regista per L’ultimo imperatore nel 1988, che quando ricevette il premio affermò che “se New York è la Grande Mela (the Big Apple), per me Hollywood stanotte è il grande capezzolo (the big nipple)”, suscitando le risate della platea.

Anche Federico Fellini tenne un magnifico discorso quando nel 1993 ritirò l’Oscar alla carriera: ricordò commosso di appartenere a una generazione e a una cultura per cui l’America e i film rappresentavano più o meno la stessa cosa (“I come from a country and I belong to a generation for which America and movies were almost the same thing.”): un universo quasi astratto, lontanissimo dall’Europa devastata dai conflitti mondiali che caratterizzarono la giovinezza di Fellini. Il grande regista riminese, in quel momento, riconobbe di essere davvero riuscito a conquistare il mondo intero con i suoi capolavori e affermò di sentirsi “a casa” nel tempio del grande cinema americano, il Dolby Theater di Hollywood, che quella notte tributò un sentito applauso e una lunga standing ovation a uno dei più amati artisti del ‘900.

Un altro memorabile discorso, nonché un autentico modello di sportività, fu quello tenuto da Ingrid Bergman nel 1975, quando ottenne il suo terzo Oscar per Assassinio sull’Orient Express. La grande attrice svedese, infatti, rimase alquanto sorpresa dal premio e si scusò con l’italiana Valentina Cortese, nominata per Effetto notte di François Truffaut, per averla privata di una vittoria che a suo dire avrebbe meritato. “Perdonami Valentina, non l’ho fatto apposta.” (“Please forgive me, Valentina. I didn’t mean to.”)

Tra i discorsi recenti, uno tra i più bizzarri è stato quello di Matthew McConaughey, vincitore nel 2014 dell’Oscar come miglior protagonista per Dallas Buyers Club. L’attore texano, dopo aver ringraziato il cast del film e l’Academy, si lanciò in uno spericolato monologo che divertì e commosse la platea. Disse che nella sua vita ha bisogno di tre cose: un modello a cui guardare (something to look up to), un obiettivo a cui puntare (something to look forward to) e qualcuno da inseguire (someone to chase). Ringraziò dunque nientepopodimeno che Dio (il modello a cui guardare) per le mille opportunità della vita, la propria famiglia (l’obiettivo a cui puntare) e infine il proprio eroe: il se stesso del futuro, ossia l’ideale di uomo migliore che non cesserà mai di inseguire, pur certo di non riuscire mai a raggiungerlo.

4. Perché la storia degli Oscar è la storia dei cambiamenti socio-culturali degli Stati Uniti

Gli Oscar hanno sempre avuto un legame fortissimo con la politica e le mutazioni socio-culturali in atto negli USA. Basti pensare a quando nel 1940 premiarono come miglior attrice non protagonista Hattie McDaniel, prima persona di colore a ricevere l’Oscar, in un’epoca in cui la segregazione razziale negli Stati Uniti era ancora feroce (la McDaniel, peraltro, vinse il premio per la sua interpretazione della domestica Mami in Via col vento, film che narra con tono struggente la fine dell’America sudista e schiavista).

Hattie McDaniel, la prima persona di colore a vincere un Oscar (nel 1940).

Un altro episodio significativo da questo punto di vista fu la premiazione di Marlon Brando come miglior attore protagonista per Il padrino nel 1973. L’attore decise di non prendere parte alla premiazione e inviò a ritirare il premio al suo posto l’attrice Sacheen Littlefeather, nativa americana Apache. La donna lesse parte di un discorso di Brando, in cui l’interprete di Don Vito Corleone protestava contro la rappresentazione dei nativi americani nel cinema statunitense. L’audience del Dolby Theater si divise tra fischi e applausi, ma indubbiamente gli Oscar divennero, ancora una volta, un grande palcoscenico per le battaglie culturali delle minoranze.

Un altro episodio celebre dal punto di vista delle battaglie politiche portate sul palco degli Oscar ebbe luogo durante la cerimonia del 2003, quando Michael Moore, vincitore del premio al miglior documentario per Bowling a Columbine, si scagliò contro l’allora presidente americano George W. Bush e contro la guerra in Iraq: “Noi amiamo ciò che non è fiction, ma viviamo in tempi fittizi. Viviamo in tempi di elezioni fittizie che eleggono presidenti fittizi. Viviamo in tempi in cui un uomo ci manca in guerra per ragioni fittizie. […] siamo contro questa guerra, signor Bush. Vergogna. E ogni volta che hai il Papa e i Dixie Chicks contro vuol dire che è finita.” (“We like nonfiction, but we live in fictitious times. We live in the time where we have fictitious election results that elects a fictitious President. We live in a time where we have a man sending us to war for fictitious reasons. […] we are against this war, Mr. Bush. Shame on you, Mr. Bush. And any time you’ve got the Pope and the Dixie Chicks against you, your time is up.”)

Questo discorso, accolto da un misto di applausi e grida di disapprovazione, divenne un simbolo dell’opposizione all’amministrazione Bush e al conflitto iracheno.

5. Perché gli Oscar sono l’apoteosi hollywoodiana

Perché gli Oscar sono così importanti per Hollywood e per la sua storia? Perché l’Academy Award è un premio industriale. L’Academy stessa, in effetti, non è una giuria ristretta sul modello festivaliero, bensì un gigantesco insieme di persone (circa 9000 attualmente) che lavorano nel mondo del cinema e a Hollywood in particolare (attori, registi, sceneggiatori, direttori della fotografia, ecc.): gli Oscar, quindi, rappresentano Hollywood che premia se stessa, i suoi successi, i suoi autori maggiori, le sue istituzioni. È una gigantesca autocelebrazione industriale.

Questo certifica l’importanza di questo premio: vincere l’Oscar non vuol dire aver realizzato il film più bello (ammesso che esista un criterio oggettivo per effettuare valutazioni di questo tipo), ma indica bensì l’appartenenza a un’industria culturale e a una tra le più importanti comunità di creativi del pianeta: è l’industria che riconosce i suoi migliori “dipendenti”, se così si può dire.

Ecco perché un grande regista come Martin Scorsese, autore di capolavori immani che hanno radicalmente innovato il linguaggio della settima arte, prima del suo premio alla regia nel 2007 confidò a Spike Lee che si sarebbe sentito un fallito qualora non avesse mai conquistato la statuetta: l’Oscar è una questione di appartenenza e di riconoscimento. E soprattutto per gli americani questo è tremendamente importante.

Un Martin Scorsese felice dopo aver ottenuto un proprio Oscar, coronamento di una fantastica carriera.

6. Perché gli Oscar sbagliano…ma rimediano

Gli Oscar, nel corso della loro storia, hanno compiuto molti errori, ignorando grandi film e importanti artisti che avrebbero meritato di essere riconosciuti. L’Academy, tuttavia, resasi conto dell’ingiustizia, ha più volte rimediato agli sbagli del passato, consegnando premi alla carriera e tributando grandi applausi a molte celebrità del cinema.

Le premiazioni tardive di alcuni geni della settima arte hanno dato vita a momenti indimenticabili, tra i più emozionanti nella storia degli Oscar.

È il caso dell’Oscar alla carriera attribuito nel 1972 a Charlie Chaplin che, commosso da un applauso infinito, non riuscì a trattenere la commozione: il grande artista, infatti, non solo non era mai stato premiato dagli Oscar come miglior regista, ma non tornava negli USA dagli anni ‘50 quando, a causa delle sue idee progressiste, era stato allontanato in seguito alle persecuzioni maccartiste. L’Academy riaccolse Chaplin nell’industria cinematografica statunitense e lo presentò come uno dei più grandi registi della storia del cinema.

Anche il grande Robert Altman, nominato agli Oscar 7 volte nella sua carriera, non riuscì mai a conquistare un premio alla miglior regia. Gli Oscar, però, gli tributarono un riconoscimento alla carriera nel 2006 e il regista di capolavori come Nashville e America oggi apparve particolarmente toccato dall’accoglienza trionfale che gli venne riservata alla cerimonia.

Un altro grande autore cui l’Academy ha recentemente tributato l’Oscar alla carriera, dopo tre nomination andate a vuoto, è David Lynch. Nel 2020 il grande regista, circondato dai collaboratori di una vita Kyle MacLachlan, Laura Dern e Isabella Rossellini, ha accettato il suo premio e ha pronunciato uno degli acceptance speeches più brevi di sempre (nemmeno 50 secondi) in cui, rivolgendosi alla statuetta dorata, si è limitato a dire:“Hai un volto molto interessante.” (“You have a very interesting face.”)

David Lynch accetta l’Oscar alla carriera (2020).

7. Perché agli Oscar sono state fatte infinite gaffe

Sulle gaffe commesse agli Oscar si potrebbero scrivere libri interi e molte di esse hanno contribuito alla fama del premio. Proviamo a ricordarne qualcuna.

Il grande regista italo-americano Frank Capra fu protagonista di un buffo episodio agli Oscar del 1934, quando era nominato per Signora per un giorno. Capra, infatti, racconta nella sua autobiografia Il nome sopra il titolo (edita da Minimum Fax: un libro che qualsiasi appassionato di cinema dovrebbe leggere) che si aspettava di vincere e che quando udì il presentatore Will Rogers assegnare il premio della regia a un certo “Frank”, convinto di aver trionfato, si alzò in piedi e si diresse verso il palcoscenico, salvo poi accorgersi che il vincitore era il realtà Frank Lloyd, regista di Cavalcata.

Capra racconta così quel momento:“L’applauso si fede assordante mentre il riflettore scortava Frank Lloyd alla pedana, dove Will Rogers lo accolse con un abbraccio e una calorosa stretta di mano. Rimasi lì al buio, pietrificato e incredulo, finché una voce arrabbiata dietro di me, urlò:«Seduto, lì davanti!» Quel percorso di ritorno in mezzo alle celebrità che applaudivano e mi gridavano «Seduto! Giù! Seduto!» perché coprivo la visuale, fu la più lunga, la più triste e la più sconvolgente camminata della mia vita.”

Capra in realtà si rifece negli anni successivi, in cui vinse ben 3 premi Oscar alla miglior regia per Accadde una notte (1934), È arrivata la felicità (1936) e L’eterna illusione (1938).

Frank Capra con uno dei suoi tre Oscar.

Nel 1938 ebbe luogo un’altra celebre gaffe, questa volta a sfondo giallo: Alice Brady, infatti, vinse come miglior attrice non protagonista per L’incendio di Chicago di Henry King ma al suo posto sul palco salì un uomo che affermò di essere stato incaricato di ritirare il premio. Tutti gli credettero, ma in seguito venne scoperto che si trattava di un impostore che voleva rubare la statuetta (che è ricoperta da una lamina di oro a 24 carati).

L’anno seguente l’Oscar al miglior attore andò a Spencer Tracy per La città dei ragazzi di Norman Taurog, ma sulla statuetta venne inciso il nome sbagliato: “Dick Tracy”.

Un altro episodio buffo si verificò nel 1974 quando Robert Opel, un attivista del movimento gay, fece irruzione completamente nudo sul palco degli Oscar, dove David Niven non riuscì a trattenere una grassa risata.

David Niven con l’uomo nudo che fece irruzione sul palco degli Oscar nel 1974.

Anche negli ultimi anni le gaffe non sono mancate. Nel 2013 un momento di ilarità si verificò quando Seth MacFarlane, irriverente presentatore di quell’edizione, eseguì un numero musicale intitolato We saw your boobs – letteralmente: abbiamo visto le vostre tette –, in cui elencò diverse attrici presenti alla cerimonia e ricordò i film in cui si erano mostrate senza veli, suscitando l’imbarazzo generale.

Inutile ricordare l’ultima e più celebre gaffe: l’errore nella consegna del premio al miglior film nel 2017, passato prima per le mani dei produttori di La La Land, dichiarato vincitore per sbaglio, per poi essere ceduto a Moonlight di Barry Jenkins, destinatario finale del riconoscimento.

Questo articolo è stato scritto da:

Jacopo Barbero, Caporedattore