Se sopravvive ancora, presso alcuni spettatori, l’idea romantica dell’artista come demiurgo indifferente ad ogni regola e dell’arte come pura intuizione lirica del sentimento, allora il cinema di Pier Paolo Pasolini – e la sua analisi – possono essere un buon antidoto a queste vecchie credenze crociane. Infatti, non c’è autore nel cinema italiano che dimostri maggiore consapevolezza delle proprie scelte linguistiche ed espressive.

Per comprendere le ragioni dietro certe scelte linguistiche è possibile affidarsi all’interpretazione dello stesso Pasolini, il quale, attraverso un ampio corpus di note e varie interviste rilasciate in occasione dell’uscita dei film nelle sale, ha spesso guidato l’esegesi critica delle proprie opere, definendo intenti ideologici, commentando le scelte stilistiche e rendendo conto delle evoluzioni formali (spesso motivate da ragioni autobiografiche).

Tuttavia, non è soltanto nell’esposizione di un ampio apparato paratestuale che Pasolini rivela la propria autocoscienza critica; essa è direttamente riscontrabile nella stessa forza espressiva che produce le immagini del film. Un elemento importante per comprendere ciò è la presenza dell’autore nel testo: vero protagonista in tutti i suoi film è, infatti, Pasolini stesso. La sua è una presenza fisica, corporea, declinata in vari modi a seconda del contesto rappresentativo. Per esempio: nel caso di film documentari come i Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo (che poi verrà invece girato a Matera), o gli Appunti per un film sull’India (mai realizzato), Pasolini è presente in video come intellettuale che conduce una ricerca antropologica intervistando gli abitanti del luogo, ma allo stesso tempo è autore del testo filmico che sta costruendo: rielabora il materiale presente nella realtà stabilendo inquadrature, movimenti di macchina, personaggi in scena; commenta le immagini a cui lo spettatore assiste, immaginando il possibile film futuro che da quelle immagini avrà vita. E anche quando non direttamente inquadrato rimane fisicamente presente, come nel finale di Comizi d’amore dove il ritmo del montaggio è scandito dalle sue parole: “[…] al vostro amore si accompagni la coscienza del vostro amore”.

Nel corso della produzione cinematografica il ruolo del poeta all’interno dei film assume sempre maggior rilievo arrivando ad una consapevolezza che è anche metalinguistica: in film narrativi strutturati per novelle come il Decameron e i Racconti di Canterbury, l’autore si autorappresenta all’interno della finzione filmica come personaggio chiave all’interno del testo, il quale progetta il testo stesso. Nel Decameron interpreta l’allievo di Giotto: passeggiando fra la gente, osserva la realtà che lo circonda (la inquadra), con il proposito di trarre ispirazione per gli affreschi che dovrà realizzare sulle pareti della chiesa di Santa Chiara. Tutto ciò che il Pasolini-personaggio vede è ciò che il Pasolini-autore inquadra, e il risultato finale nella narrazione (gli affreschi medievali) corrispondente al risultato finale nella realtà (la seconda parte del Decameron). Analogo è il ruolo del Pasolini-personaggio nei Racconti di Canterbury, in cui interpreta Chaucer, che termina con la stesura dei racconti appena osservati dallo spettatore del film. Il Fiore delle mille e una notte è il film che chiude (con i due appena menzionati) la Trilogia della vita; esso, secondo la sceneggiatura originale, avrebbe dovuto costituire il punto d’approdo di questa tensione rappresentativa Autore-personaggio: lo stesso Pasolini-autore, senza la mediazione di alcun personaggio da interpretare, sarebbe dovuto comparire davanti alla macchina da presa dichiarando apertamente il tema omosessuale dell’opera. Nella versione finale realizzata questa parte non è presente.

L’esplicita presenza del corpo di Pasolini non è il solo elemento da tenere in considerazione per comprendere come la consapevolezza totale del linguaggio cinematografico influenzi la produzione delle immagini. Il mediometraggio La Ricotta, terzo lavoro del regista, segna un punto di svolta decisivo all’interno della filmografia pasoliniana sia per i contenuti tematici (contrari all’epica tragicità dei precedenti Accattone e Mamma Roma), sia per quanto riguarda le soluzioni espressive, condizionate da una sempre maggiore autoriflessione. Il film (in bianco e nero) racconta di una piccola troupe che sta realizzando, alla periferia di Roma, un film sulla Passione di Cristo. Il regista di questo film dentro il film (interpretato da Orson Welles) decide di trasporre la Passione ricalcando manieristicamente opere del Pontormo e di Rosso Fiorentino, in una statica e coloratissima rappresentazione sacra; questa si oppone al bianco e nero del film sulla Passione del sottoproletariato (di ispirazione pittorica masaccesca, come per i precedenti film epico-tragici) che sta girando Pasolini-autore. Il protagonista è infatti Stracci, un attore del sottoproletariato che interpreta, nel film diretto dal personaggio di Welles, il ladrone buono crocifisso insieme a Cristo, che durante le riprese sulla croce morirà tragicamente di indigestione per la troppa ricotta avidamente divorata. Fino a qui potrebbe sembrare un film uguale ai precedenti per tematiche (morte del sottoproletariato) e stile (la ripresa di moduli pittorici per sacralizzare qualcosa di reale), ma l’aggiunta di un terzo livello narrativo trasforma completamente il film; infatti, al centro di tutto è la chiassosa troupe, capitanata da Welles, volgare e disinteressata alla storia sacra che sta raccontando. La messa in scena di questo livello è ispirata allo stile di Charlot e quindi improntata ad uno stile prettamente comico che Pasolini esplorerà nei successivi film con Totò. Sequenze velocizzate alla Chaplin descrivono il vagare di Stracci (“il vagabondo”) dal set al suo rifugio dove divora la ricotta, le imprecazioni e i balli blasfemi della troupe smontano la ieraticità delle immagini manieriste, le pose aristocratiche del regista Welles scimmiottano il Pasolini-autore (che dunque prende in giro sé stesso). Con un’estrema consapevolezza metalinguistica Pasolini si deride, criticando sé e il suo linguaggio cinematografico, sabotando con la parodia la sacralità delle immagini che aveva ideato, esponendone il lato più umanamente comico.

L’approccio autocritico e sperimentale di Pasolini al linguaggio cinematografico ne fanno uno degli autori più interessanti del Cinema italiano, e non solo. L’eclettismo di Pasolini e l’amore per il linguaggio lo hanno reso un autore innovativo anche in campo letterario, dove la massima commistione di stili e forme diversi si sarebbe dovuta raggiungere nell’incompiuto romanzo Petrolio, in cui l’autore prevedeva di inserire delle proprie foto (di cui alcuni nudi), scattate da Dino Pedriali, in funzione narrativa.

In periodi di grande celebrazione anche il più indigeribile degli artisti può diventare icona da divorare. A cent’anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, la tentazione di definire il vasto e difforme corpus artistico e intellettuale come “profetico” è ancora molta. Nei decenni è andata costruendosi un’immagine sacrale dell’intellettuale, inascoltata (e per questo bonariamente consolatoria) e che tende a ridurne la complessità e l’importanza artistica. Ridere di Pasolini, bestemmiarlo, può essere un buon modo di rapportarsi criticamente alla sua opera, in fondo si sa che “i professori vanno mangiati in salsa piccante”

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Alessandro Balbinot, Redattore