C’era una volta… il cinema a basso budget

Inutile negarlo: siamo in un momento storico-culturale fortunato per quanto riguarda le narrazioni a sfondo queer. È sempre più facile trovare film che affrontano tematiche legate alla comunità LGBTQIA+ rivolte ad un pubblico di massa e a fasce di età più variegate. Serie come Heartstopper o Young Royals, film come Rosso, bianco & sangue blu sono evidentemente creati per un pubblico di adolescenti, commissionati e distribuiti da servizi di streaming facilmente accessibili come Netflix ed Amazon Prime. All’interno di questi stessi servizi di streaming è poi possibile trovare intere sezioni dedicate al tema, in risposta all’aumento di offerta ma anche a quello di domanda.

È allora più che mai necessario ricordare la storia che ci ha portati a questo momento, costellata da anni di letterale proibizionismo, per quanto riguardava la rappresentazione di personaggi omosessuali sul grande schermo (pensiamo che fino al ‘68, in America, il Codice Hays impediva che nei film si mostrassero, tra le altre cose, “perversioni sessuali”), di simboli riconoscibili per evitare la censura, di passi falsi e di aperture timide. Ma una storia, anche, che proprio come la comunità a cui si rivolge gioca su binari diversi rispetto a quelli tradizionali.

The Watermelon Woman (1996, mockumentary a basso budget e primo film diretto da una donna nera apertamente lesbica, Cheryl Dunye (a destra)

Se il cinema mainstream statunitense, rivolto al grande pubblico e al consumo di massa, si è dimostrato e talvolta si dimostra tuttora reticente nell’affrontare il tema dell’omosessualità, registi ed artisti queer desiderosi di raccontare le proprie storie si sono per anni mossi nel circuito underground, nel cinema di nicchia libero da distributori e produttori che potessero metter bocca riguardo alla loro visione artistica. Realizzati spesso con budget miseri, questi film sono dotati il più delle volte di un’estetica più “povera” rispetto alle proprie controparti hollywoodiane, ma proprio grazie all’indipendenza erano anche capaci di offrire una visione coraggiosa ed inedita della comunità queer. Dove il cinema mainstream ha fornito per anni racconti di sofferenza e di repressione, il cinema indipendente e a basso budget ci riporta un’immagine vivace, esasperata e colorata, spesso virante nell’estetica camp (caratterizzata dall’esagerazione e dal rovesciamento delle aspettative e i canoni). Altri film, invece, raccontano la vita quotidiana di membri della comunità e ritraggono il “sottobosco” queer in maniera onesta.

A sinistra, Pink Flamingos (1972), a destra, The Rocky Horror Picture Show (1975), entrambi film realizzati a basso budget con un’evidente estetica camp, divenuti cult del cinema queer

È questo il caso di Parting Glances (1986, Bill Sherwood), film che prenderemo in esame oggi in onore del Pride Month, per provare ad andare oltre la sola celebrazione di prodotti mainstream e ricordare, invece, quelle produzioni e volti di nicchia a rischio oblio.

Vivere (e morire) a NY

Siamo a New York, nel pieno della pandemia di AIDS. Michael (Richard Ganoung) è un aspirante scrittore che vive col compagno Robert (John Bolger). Michael si prende cura del suo ex fidanzato storico, ora malato di AIDS, Nick (Steve Buscemi), di cui è ancora innamorato. Il film è ambientato nelle 24 ore precedenti alla partenza di Robert per l’Africa in vista di un lavoro che lo terrà impegnato per due anni.

Ricordo di essere andato a vedere Festa per il compleanno del caro amico Harold e mi sembrava di vedere dei marziani. (…) Quando la gente si ubriacava o scoppiava a piangere perché la vita era dura, io pensavo “Che cosa? La vita è dura?” (…)

Quando faccio il mio lavoro di regista do l’omosessualità per assodata. Invece di cominciare con una causa appassionante o con il volere fare un nobile film gay, cerco soltanto di fare un film. Punto.

(Bill Sherwood in Vito Russo, Lo schermo velato, pp. 380-381, traduzione di Vincenzo Patanè)

Michael e Robert

Nella sua “piccolezza”, Parting Glances si caratterizza per una rappresentazione estremamente onesta dell’ambiente in cui si svolge, la New York queer degli anni ‘80. Nel suo testo fondamentale sull’omosessualità al cinema Lo schermo velato, Vito Russo paragona il film, per la sua forma estremamente “locale”, a quelli di Woody Allen.

Un altro elemento portato in luce da Russo e voluto dal regista Bill Sherwood è la naturalezza con cui il tema dell’omosessualità viene affrontato. Parting Glances si apre, senza troppi preamboli, con una scena d’amore tra Robert e Michael, proiettandoci immediatamente in un mondo popolato per la quasi totalità da personaggi omosessuali, in una comunità che esiste da ben prima dell’inizio del film.

Tutti questi elementi emergono in una delle sezioni più interessanti e lunghe del film, dedicata al party di addio di Robert a casa di un’amica, Joan (Kathy Kinney). Nella scena emerge una vitalità e un guizzo artistico dirompenti, un’atmosfera di cordialità e di evidente familiarità collettiva raramente catturata in altri film in cui, al contrario, l’esperienza di vita queer veniva (e a volte viene) ancora ritratta con tinte neppure troppo sotterranee di sofferenza e negazione di sé.

Allo stesso tempo è un momento in cui inevitabilmente si discute, come in ogni ritrovo di amici che si rispetti, la contemporanea situazione socio politica, incarnata dal personaggio di Nick e dalla sua malattia. Il pregio del film sta nel fatto che tali discorsi non scadono mai nel melodrammatico. Il dialogo che Joan e Michael intavolano attorno alla prossima dipartita di Nick è quello di due amici che cercano di venire a patti col fatto che presto perderanno una persona a loro cara, o, per citare Russo: “Parting Glances non fa vedere la reazione dei gay all’Aids; fa vedere come reagiscono gli amici di Nick” (Russo, op. cit., p. 379). 

Joan: “Non preoccuparti, tra qualche anno toccherà a noi preoccuparci di cose come cancro ai polmoni o attacchi di cuore”.

Michael: “È diverso quando hai 50 o 60 anni. La morte imminente non ti spaventa più tanto”.

Joan: “Scommetto di sì, invece. Scommetto che è una cazzo di rottura anche a 80 anni”.

La festa a casa di Joan

Ad intercettare tutte le anime contraddittorie del film, tanto l’elemento più comico quanto quello melanconico, è il personaggio di Nick, interpretato da Steve Buscemi al suo primo ruolo da protagonista

Nick è notevole non solo perché è la prima importante prova attoriale di un interprete destinato a diventare molto più noto (lo ricordiamo in film iconici come Le Iene, Fargo e Il grande Lebowski), ma anche perché riesce nell’impresa di non essere solo “l’amico malato”, o il vessillo della sofferenza di una comunità intera, impresa nella quale ancora oggi è facile cadere (pensiamo solo a tutti i personaggi queer stereotipatamente buoni o cattivi che abbiamo visto nei film). Nick è un personaggio a tutto tondo, dotato di una sua personalità estremamente abrasiva, di opinioni forti, di un passato e di legami, di un futuro che conosciamo ma che non vedremo mai, un personaggio intrinsecamente legato al concetto di malattia e di morte ma non per questo meno vitale e dotato di una verve critica ed umoristica. Proprio come il film di cui fa parte.

Nick (registrando il suo testamento): “Papà, tu ti becchi diecimila dollari. Dovrebbero bastarti per trascorrere un bel weekend ad Atlantic City. A Michael ne vanno cinquantamila, Joan e Terry ventimila a testa, e il resto va alla GMHC per la cura di persone povere con l’AIDS, e non per la ricerca, perché se il governo può spendere un fottio di soldi in bombe allora potrebbero spendere qualcosa anche per la ricerca, giusto? Giusto.”

Nick alla festa di Joan

Per protesta e ad imperituro ricordo

Sia Vito Russo che Bill Sherwood parlano della dimensione universale della storia raccontata nel film, una storia che in effetti non chiama in causa l’omosessualità dei personaggi come elemento di conflitto, ma riguarda sentimenti applicabili a chiunque. Michael sta perdendo, in maniere diverse, i due grandi amori della sua vita, Robert sta partendo per evitare di confrontarsi con il lutto che il suo compagno dovrà affrontare, gli amici che circondano Nick tentano di venire a patti emotivamente con la consapevolezza della sua morte mentre lui è ancora vivo.

Eppure, è proprio aggrappandosi a questi sentimenti così universali, alla frustrazione di Michael nei confronti del suo compagno che lo sta abbandonando nel momento del bisogno, alla rabbia di Nick nei confronti di un sistema che lo sta lasciando morire, che il film si fa megafono di una critica sociale che è, invece, profondamente radicata nell’esperienza della comunità queer di quegli anni: quella rivolta alla terribile gestione della pandemia di AIDS da parte dell’amministrazione Reagan.

Nell’edizione dell’ ‘87 de Lo schermo velato, Vito Russo accoglieva Parting Glances con parole estremamente positive. Tre anni dopo, nel ‘90, il regista Bill Sherwood sarebbe morto per complicazioni da AIDS. Parting Glances sarebbe rimasto il suo primo ed unico film, un modesto ma vivido affresco di comunità e di vita vissuta, celebrazione in piccolo della quotidianità e della banalità dell’esperienza e dei sentimenti umani nel corso di una tragedia che travolge un’intera comunità minoritaria e, per questo, volutamente ignorata.

Molti altri artisti, in quegli anni, sarebbero venuti a mancare, spazzati via da una disgrazia evitabile che ha portato via con sé una quantità incalcolabile di voci queer di cui non sapremo mai il nome o che, forse, abbiamo già dimenticato. In questo Pride Month che volge al termine, questo breve pezzo vuole essere una loro celebrazione.

Nick: “Non è giusto, comunque, ti sei innamorato un sacco di volte!”

Michael: “Solo una volta, in realtà”.

Nick: “Sì, e adesso lui se ne è andato, giusto?”

Michael: “Lui è proprio qui”.

Nick e Michael

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Silvia Strambi,
Redattrice.