Gli Oscar sono, ancora oggi, considerati da molti un certificato di qualità. In verità il più delle volte le vittorie non sono che uno specchio interessante della situazione mediatica del momento, quando non addirittura uno spaccato della società. Il senno di poi e il trascorrere del tempo, col cristallizzarsi di una sorta di “enciclopedia” di film più o meno importanti, ci aiutano, certamente, a constatare quali vincitori della statuetta a “miglior film” sono rimasti nella nostra memoria collettiva e quali, invece, forse non avrebbero meritato tale riconoscimento rispetto agli altri concorrenti.
In questo articolo affronteremo otto occasioni in cui l’Oscar al miglior film potrebbe essere potenzialmente immeritato secondo il parere di chi scrive.
1942: Com’era verde la mia valle (John Ford)
La nostra prima annata dev’essere stata un grattacapo per i votanti. Tra i candidati sono annoverati infatti, oltre al film vincitore, altre opere di grandi ed acclamati registi con cast d’eccezione e\o grandi successi di pubblico e critica, diventati successivamente dei classici: Il mistero del falco (John Huston), Piccole volpi (William Wyler), Il sergente York (Howard Hawks), Sospetto (Alfred Hitchcock). Tuttavia, ad oggi è difficile non pensare che il vincitore avrebbe dovuto essere il film che, oltre a rivoluzionare il cinema tutto, è ancora considerato da molti il migliore di sempre: stiamo parlando del debutto di Orson Welles, ventiseienne al momento dell’uscita di Quarto potere.
La scelta dell’Academy, certo, non appare fuori luogo: Ford era un regista più anziano con una lunga carriera alle spalle, il film era tratto da un libro best seller e aveva un cast di attori già conosciuti nell’industria (Welles aveva assunto per lo più interpreti della propria compagnia teatrale). Com’era verde la mia valle possiede inoltre una struttura narrativa molto più tradizionale rispetto al debutto del giovanissimo regista. Tuttavia, a distanza di decenni è difficile non ritenere questa vittoria, anche se perfettamente comprensibile, poco lungimirante.
1957: Il giro del mondo in 80 giorni (Michael Anderson)
Per molto tempo, gli Oscar sono stati assegnati soprattutto a blockbuster, premiati più per il loro valore produttivo che per quello dell’opera nel suo complesso.
Nella cinquina del ’57, praticamente tutti i titoli rientrano sotto questa etichetta. Abbiamo sia un western (La legge del Signore, William Wyler) sia un musical (Il re ed io, Walter Lang), entrambi generi al tempo considerati ottimi investimenti e capaci di creare un sicuro ritorno economico. Il vincitore, oltre ad avere un cast d’eccezione per l’epoca e più di quaranta attori famosi in camei, non aveva lesinato nella produzione per riprodurre il maestoso viaggio del romanzo omonimo di Verne. Gli altri due grandi nomi dell’anno erano I dieci comandamenti (Cecil B. De Mille), kolossal biblico remake di una pellicola muta dello stesso regista, e Il gigante (George Stevens), ultimo film con protagonista James Dean, già morto all’epoca dell’uscita.
Tutti questi film possedevano potenzialmente una marcia in più per vincere il premio, grazie alla loro esasperata spettacolarità. Non è certo colpa dell’Academy se, a distanza di decenni, quello di Anderson potrebbe essere il più dimenticabile.
1977-Rocky (John G. Avildsen)
Rocky è tuttora considerato a buona ragione uno dei migliori sport movies di sempre. Tuttavia ad una neanche troppo attenta occhiata alla lista dei contendenti dell’Oscar nel ‘77, la sua vittoria risulta abbastanza fuori luogo. La cinquina comprendeva tra gli altri Questa terra è la mia terra (Hal Ashby), uno dei primi film a fare uso della macchina da presa steadicam, e Tutti gli uomini del presidente (Alan J. Pakula), che raccontava a breve distanza di tempo lo scandalo Watergate (avvenuto nel ’74) concentrandosi sulle indagini giornalistiche che lo avevano smantellato.
Un altro dei grandi titoli dell’anno era certamente Quinto potere (Sidney Lumet), il quale in quell’occasione si portò a casa alcuni riconoscimenti alquanto impressionanti: il primo Oscar postumo ad un attore (Peter Finch) e il premio alla migliore attrice non protagonista a Beatrice Straight, per quella che è tuttora la performance col minutaggio più breve mai premiata dall’Academy (in tutto 5 minuti e 2 secondi). D’altra parte, quello era anche l’anno della nomination di Taxi Driver (Martin Scorsese), di cui non è certo necessario ricordare l’ importanza storica.
Di fronte ad avversari di questo calibro, il trionfo di Rocky risulta di certo ridimensionato: forse, di fronte al capolavoro di Scorsese, Balboa sarebbe dovuto andare K.O.
1999: Shakespeare in love (John Madden)
Non crediamo di risultare controversi chiamando questa vittoria una delle più discusse nella storia dell’Academy. Il film storico ispirato alla vita di William Shakespeare risulta senz’altro piacevole, ma quell’anno aveva avversari di livello sicuramente superiore.
Nella categoria “miglior film” erano infatti candidati Elizabeth (Shekhar Kapur), altra pellicola storica ambientata in età elisabettiana nonché primo grande successo dell’attrice Cate Blanchett, e La vita è bella di Roberto Benigni, che quella notte si sarebbe portato a casa altre due statuette. Ma i grandi nomi della cinquina, quell’anno, erano quelli di due war movies realizzati da maestri assoluti della settima arte: Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg e La sottile linea rossa di Terrence Malick.
Ad oggi, il successo di Shakespeare in love agli Oscar (vinse in totale sette statuette) viene ricondotto più che alla sua qualità eccelsa alla campagna pubblicitaria martellante messa in atto dall’allora dirigente della casa di produzione, la Miramax, e produttore del film: Harvey Weinstein. Si è trattata forse di una delle prime occasioni, nella storia degli Academy, in cui è stato compreso il potere di una buona campagna marketing.
2002: A beautiful mind (Ron Howard)
Ci troviamo di nuovo davanti ad un caso in cui non è tanto la scarsa qualità del film vincitore a rendere potenzialmente ingiusta la sua vittoria, ma piuttosto il surplus degli avversari. Nel caso del 2002, A beautiful mind, ispirato alla storia vera del matematico John Forbes Nash Jr., aveva tra i propri competitori l’ultimo film di Robert Altman, Gosford Park, e il dramma In the bedroom, debutto alla regia di un lungometraggio di Todd Field (in concorso quest’anno con Tár).
Ma a spiccare quell’anno nella cinquina come titoli “inusuali” erano certamente Il signore degli anelli-La compagnia dell’anello (Peter Jackson) e Moulin Rouge! (Baz Luhrmann). Il primo era l’apripista di una saga di dimensioni impensabili per l’epoca, tratta da una trilogia di fama mondiale e fino ad allora mai adattata per intero. Il secondo, col suo successo e la propria impostazione, è da molti considerato il film che ha ridato linfa vitale al musical.
L’Academy ha sempre avuto la tendenza a premiare il dramma, ignorando totalmente determinati generi cinematografici, e dunque la scelta non può sorprendere. Jackson ha avuto comunque la sua “rivincita” due anni dopo, quando Il ritorno del re vinse ben 11 premi Oscar (compreso quello a miglior film!), mentre l’Academy decise di premiare il musical l’anno successivo con Chicago (Rob Marshall).
2006: Crash – Contatto fisico (Paul Haggis)
Se la vostra prima reazione nel leggere il titolo qui sopra è stata chiedervi “aspetta, che film è?”, sappiate che non siete soli. Crash è costituito di un insieme di storie vertenti attorno al tema del razzismo, con un cast corale composto tra gli altri da Don Cheadle, Matt Dillon, Brendan Fraser e Sandra Bullock.
La cinquina degli Oscar 2006 comprendeva la seconda regia di George Clooney, Good Morning, and Good Luck., la prima collaborazione tra Spielberg e l’autore teatrale Tony Kushner, Munich, e Truman Capote – A sangue freddo, grazie al quale quella notte Philip Seymour Hoffman portò a casa la sua prima (ed unica) statuetta come miglior attore. Tuttavia, il grande favorito della serata era I segreti di Brokeback Mountain (Ang Lee), neo western che aveva macinato consensi e premi nel corso della award season e che, ai tempi, rappresentava uno dei pochi casi in cui al centro di un film rivolto ad un pubblico mainstream c’era la narrazione esplicita di un amore omosessuale.
Il caso di Crash rappresenta forse un esempio evidente del fatto che vincere un Oscar non garantisce a un film lo statuto automatico di film memorabile.
2011-Il discorso del re (Tom Hooper)
L’edizione del 2011 ha fatto furore (non proprio in positivo) sia a causa della conduzione, affidata ad Anne Hathaway e James Franco, sia per le vittorie. Il biopic storico che si aggiudicò la statuetta a miglior film aveva infatti avversari di tutto rispetto. I candidati della categoria comprendevano Un gelido inverno, consacrazione attoriale di una non ancora ventenne Jennifer Lawrence, i nuovi film di David O. Russell (The Fighter), dei fratelli Coen (Il Grinta) e di Danny Boyle (127 ore), la commedia a tema queer I ragazzi stanno bene e, sorprendentemente, un film d’animazione, ovvero Toy Story 3-La grande fuga.
Tra i principali favoriti della serata vi erano due pellicole che molto dovevano all’animazione nipponica: l’allucinato viaggio nel mondo della danza di Darren Aronofsky, Il cigno nero, con cui Natalie Portman vinse l’Oscar alla migliore attrice, e l’altrettanto curioso Inception di Christopher Nolan. Chiudeva la rosa dei candidati quello che, ad oggi, è considerato da diversi critici uno dei film migliori del 21esimo secolo: The Social Network di David Fincher, storia della nascita di Facebook. Con un avversario che nel corso del tempo ha acquistato una tale nomea, la vittoria de Il discorso del re non può non far sollevare qualche sopracciglio.
2022: CODA – I segni del cuore (Sian Heder)
Impossibile chiudere senza citare la più recente delusione fornitaci dall’Academy.
Dopo la batosta della pandemia, la scorsa annata cinematografica ci ha regalato diverse uscite interessanti e nomination più che valide: abbiamo avuto il ritorno di grandi maestri come Jane Campion (Il potere del cane) e Paul Thomas Anderson (Licorice Pizza), nuovi film di affermati autori come Spielberg (West Side Story) e Guillermo del Toro (La fiera delle illusioni), adattamenti di grandi opere letterarie (Drive my car, Dune) e racconti autobiografici (Belfast).
Ha sorpreso dunque la vittoria di CODA , remake del francese La famiglia Bélier, raccontante le vicende di una ragazza che fa da interprete alla sua intera famiglia, composta da persone sordo-mute. Sebbene il film di Heder non sia privo di valore, anche grazie alle buone interpretazioni del cast, composto da persone realmente sordo-mute (al contrario che nell’originale francese), veder vincere un premio tanto ambito ad un film dimenticabile in un’annata così ricca di pellicole di assoluto livello ha indubbiamente deluso molti appassionati.
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