Leggi la prima parte qui.

Dopo gli anni ’60, il musical non è mai più stato quello di una volta, dato riscontrabile già solo nell’investimento dedicato dalle case di produzione: alla quarantina di titoli prodotti nel 1940, si contrappongono, trent’anni dopo, solo una decina di film. Tuttavia, al contrario di altri generi e sottogeneri che a seguito del flop commerciale sono spariti dalla circolazione -si pensi ai film di cappa e spada- il musical cinematografico ha continuato ad esistere in forme “minori” ma ugualmente degne di analisi, per poi subire una sorta di rinascimento che prosegue a fasi alterne dai primi anni 2000.

Vorrei segnalare che trovare costanti, all’interno del corpus composito di film post anni ’60, non è facile: non abbiamo direttive dettate dalle rispettive case di produzione, o gruppi di attori ricorrenti, e i risultati finali sono molto diversi da caso a caso. Ugualmente, è difficile stabilire una storia precisa del genere da questo punto in poi, specialmente per ciò che concerne il nuovo millennio, le cui vicende sono ancora troppo recenti per consentirci di segnare con certezza un percorso ancora in divenire. Tuttavia, proveremo comunque a dare coerenza ai dati che abbiamo e a tracciare un bilancio di questo lungo periodo.

Avventuriamoci dunque una seconda volta lungo la Great White Way per scoprire cosa resta del musical, cosa è cambiato e cosa possiamo aspettarci per il futuro.

IL MUSICAL A BASSO BUDGET DEGLI ANNI ‘70

Se negli anni ’60 i musical ad alto budget non erano riusciti a raccogliere le istanze dei giovani, al contrario negli anni ’70 tocca alle produzioni a basso budget cercare di catturare lo spirito di ribellione post-sessantottino. Jesus Christ Superstar (Norman Jewison, 1973), tratto dall’omonimo album di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber (futuro grande autore della storia del genere), è una rilettura in chiave moderna e hippy degli ultimi giorni di vita di Gesù con protagonista un cast multietnico, girato in Israele con 3.5 milioni. Hair (Miloš Forman, 1979) tenta la stessa strada, trattando di una comune di hippy durante la guerra in Vietnam, ma risulta fuori tempo massimo (il conflitto era finito nel ’75) e meno eversivo rispetto allo spettacolo teatrale. 

The Rocky Horror Picture Show (Jim Sharman, 1975), realizzato con lo stesso cast dello spettacolo teatrale (con poche eccezioni: una di queste è una giovane Susan Sarandon) e mezzi molto limitati, è una parodia dei B-movies horror degli anni ’30-’60, una celebrazione della cultura gay e camp e una critica all’ipocrisia della borghesia. Inizialmente un disastro al botteghino, diventò un enorme successo come spettacolo di mezzanotte, e tuttora vanta una grande comunità di appassionati. 

Anche Grease (Randal Kleiser, 1978), probabilmente il film più redditizio e riconoscibile di questo periodo, viene realizzato con un budget relativamente basso di soli 6 milioni (ne guadagnerà 366). L’intento, però, è anche in questo caso alquanto eversivo: si tratta infatti di uno sguardo nostalgico sugli anni ’50 che però inietta nei suoi personaggi lo spirito ribelle e sessualmente libero dei giovani contemporanei. 

Non rispondente alla definizione di “basso budget” (costò infatti 24 milioni) ma ugualmente interessante in quanto realizzato sull’onda del genere blaxploitation è The Wiz (Sidney Lumet, 1978). Si tratta di una rielaborazione de Il mago di Oz con un cast interamente composto da performer neri, con diversi nomi famosi (o che lo sarebbero divenuti di lì a breve): Michael Jackson, Diana Ross, Lena Horne, Richard Pryor, Mabel King… 

Nel ’72, un film realizzato con meno di 5 milioni di budget da una casa di produzione “minore” riesce addirittura a diventare mainstream aggiudicandosi otto Oscar compreso quello al miglior film: si tratta di Cabaret, concentrato attorno alle vicende dei dipendenti di un locale notturno nella Germania pre-salita al potere di Hitler. 

Cabaret è un film crudo, cupo e sporco, come gli ambienti in cui è ambientato, grottesco come alcuni dei suoi personaggi (tra tutti il maestro delle cerimonie, interpretato da Joel Gray). Tratta in maniera schietta temi quali la banalità con cui il nazismo penetra nella società tedesca e l’ambiguità e libertà sessuale, col disfarsi della “cellula” eterosessuale rappresentata dalla coppia protagonista a seguito dell’intromissione di un terzo personaggio, un uomo. Protagonista è Liza Minnelli, la figlia di Vincente Minnelli e Judy Garland: la discendente diretta della vecchia generazione che dà linfa ad una nuova tradizione.

Cabaret è la dimostrazione che il fallimento del grande modello dello studio system non rappresenta necessariamente la fine del musical come genere, ma che piuttosto il successo era ancora possibile aprendosi, però, alle nuove tendenze e a un’evoluzione nelle forme.

IL MUSICAL ANIMATO E TELEVISIVO

Negli anni ’80 e ’90, la formula musical è quasi sempre appannaggio dei film d’animazione, specialmente (ma non unicamente) quelli della Disney, che aveva cominciato l’attività proprio producendo lungometraggi con numeri musicali a partire dagli anni ’30, tradizione ridimensionatasi negli anni ’70-‘80. 

Nei 10 anni compresi tra ’89 e ’99 la Disney vive il suo “Rinascimento”, con l’uscita di alcuni dei propri film più profittevoli e più acclamati (Il re leone, Aladdin, Mulan, Il gobbo di Notre Dame…). Gli iniziatori di questa rivoluzione in casa Disney, in fatto di canzoni, sono Alan Menken e Howard Ashman, autori del musical La piccola bottega degli orrori (1986). I due lavorarono come un duo fino alla morte di Ashman, avvenuta nel 1991 a seguito di complicanze da AIDS. Secondo molti, i testi di quest’ultimo sarebbero stati decisivi nella riuscita dei loro lavori. Menken continua ancora oggi a lavorare per la Disney, anche se più sporadicamente rispetto al passato. 

Negli stessi anni, diverse case di produzione di film di animazione tentano di capitalizzare su questo modello. L’opera più riconoscibile è certamente quella di Don Bluth, ex animatore della stessa Disney che, dopo alcuni successi con film per bambini particolarmente cupi (Brisby e il segreto di NIMH, Fievel sbarca in America) si dedica con risultati altalenanti al musical di stampo disneyano (Pollicina, Anastasia…).

Gran parte dei prodotti usciti in questo periodo sono ancora più semplicistici delle opere di Bluth, nati con l’evidente intento di “scopiazzare” la Disney per imitarne il successo, senza però portare la stessa cura (per le animazioni, per i temi trattati, per le canzoni…) della casa di produzione. Dunque, come la formula musical era stata associata, trent’anni prima, alla costruzione di mondi altri e fantastici, così adesso comincia a venire legata soprattutto a prodotti animati e, per associazione, “per bambini” e “infantili”. 

Dal lato dei live action, possiamo segnalare la presenza di diversi film prodotti per essere trasmessi direttamente in TV, con bassi budget e ancora più bassi standard di qualità: una caduta di stile davvero impressionante, per un genere che aveva fatto della propria esclusività e spettacolarità il proprio cavallo di battaglia contro l’avanzare del mezzo televisivo. 

Nella seconda metà degli anni 2000, anche la Disney inizia a sua volta a produrre film per la rete televisiva Disney Channel con al loro interno numeri musicali, tradizione che tuttora prosegue. Ad aprire questa nuova stagione è High School Musical (Kenny Ortega, 2006), il quale viene accolto in maniera mista dalla critica ma diventa il DCOM (Disney Channel Original Movie) di maggior successo della storia della rete. Il risultato positivo del film fu tale da portare alla creazione di due sequel, il secondo dei quali fu addirittura trasmesso al cinema. Ad oggi la saga di High School Musical è ricordata con affetto da molti giovani. Probabilmente, per diversi di questi la trilogia è stata l’introduzione al genere assieme alla serie televisiva Glee (2009-2015).

GLI ANNI 2000 E LA RINASCITA

Il nuovo millennio si apre con l’uscita di film di grande successo che portano nuova linfa al genere al cinema, riuscendo a trovare la maniera di farlo funzionare dopo alcuni decenni di risultati spesso deludenti. Moulin Rouge! (Baz Luhrmann, 2001), nominato a 4 premi Oscar, è un pastiche che prende a piene mani dalle origini del musical, sia teatrali (la trama è evidentemente ispirata al melodramma La traviata e ai canoni del genere) sia cinematografiche, riprendendo la grandeur del cinema classico a cui il montaggio frenetico ed effetti esagerati contribuiscono. Chicago (Rob Marshall, 2002), vincitore di 5 premi Oscar, alterna le scene ambientate nella fredda realtà della Jazz Era, delle carceri e dei tribunali, alle fantasie della protagonista, rappresentate come grandi numeri di varietà.

I successi di questi film aiutano a far “rinascere” il genere, anche se non con la pervasività degli anni d’oro e, soprattutto, producendo risultati molto diversi in ogni singolo caso.

Il fantasma dell’Opera (Joel Schumacher, 2004) e Rent (Chris Columbus, 2005), tratti dagli omonimi musical teatrali, non riescono ad utilizzare al meglio il mezzo cinema nei numeri musicali, con riprese spesso statiche e poco coinvolgenti che non supportano l’atmosfera. Al contrario, Sweeney Tood-Il diabolico barbiere di Fleet Street (Tim Burton, 2007) ed Hairspray (Adam Shankman, 2007) assumono un proprio stile riconoscibile e in linea con le premesse degli spettacoli. Mamma Mia! (Phyllida Lloyd, 2008), pur ricevendo critiche tendenzialmente negative, è il terzo film di maggior incasso dell’anno (al di fuori del Nord America) e tuttora è dotato di una sua fanbase, tanto che pochi anni fa ne è stato prodotto un sequel.

Due elementi cominciano a diventare costanti in questi film che vedremo tornare in futuro. Il primo è la presenza di massiccio stunt casting, ovvero l’assunzione di interpreti famosi per il loro lavoro di attori, perfino vere e proprie star dello show business, ma non precedentemente esperte di canto e ballo (ci sono ovviamente eccezioni). Si tratta di una strategia pensata, ovviamente, per portare persone al cinema e rilanciare il genere. Anche in questo caso, la qualità vocale varia da caso a caso: il lavoro svolto in Chicago da Catherine Zeta Jones ha contribuito a farle guadagnare un Oscar; al contrario, Pierce Brosnan in Mamma Mia! è stato massacrato dai critici, con giudizi costellati di insulti creativi.

In secondo luogo, notiamo la mancanza di registi che siano specializzati nel genere: generazioni di filmmaker che hanno perfezionato il musical cinematografico sono state spazzate via senza poter passare a quelle successive le proprie conoscenze in materia, lasciando un vuoto che spinge i nuovi registi a dover cercare soluzioni autonomamente in risposta alle richieste di mercato. In particolar modo, è necessario trovare una soluzione per evitare di straniare il pubblico, che non è più abituato all’interruzione narrativa per dei numeri di danza e ballo. 

Di solito, ci si approccia alla questione in due modi diametralmente opposti. 

Da una parte, abbiamo il modello realistico, di cui è esempio emblematico Les Miserables (Tom Hooper, 2012). Hooper si avvicina al musical anche in questo caso con un cast di all star (anche se diversi, come Hugh Jackman, hanno esperienza canora) con pochi attori di Broadway in parti secondarie. Il suo è un approccio iper realistico: il mondo filmico è una ricostruzione cupa e cruda della Parigi del 19esimo secolo, ripresa con colori sporchi e inquadrature claustrofobiche. Ci troveremmo insomma davanti ad un period drama standard, non fosse che per tutto il film i personaggi cantano, tra l’altro in presa diretta, altro elemento che conferisce all’esperienza un ché di concreto. L’intento dichiarato è proprio quello di creare un musical che non ricordi affatto il musical, o meglio, che si allontani dai suoi elementi fantastici e irrealistici, sottintendendo che questi lo rendano un genere meno legittimo o meno serio.

A fianco di questo approccio realistico che è stato utilizzato da altri registi oltre a Hooper, abbiamo il ritorno, specialmente negli ultimi anni, di un modello più stravagante, che vede i numeri musicali assumere caratteristiche anti naturalistiche, attraverso un utilizzo creativo della regia o degli elementi nell’inquadratura. The Greatest Showman (Michael Gracey, 2017), pur non essendo stato particolarmente ben accolto dalla critica, è un esempio perfetto per questo tipo di musical. I numeri musicali risultano delle parentesi in cui la regia e la fotografia si sbizzarriscono, creando situazioni che siano adatte ad amplificare l’effetto spettacolare, sfruttando anche l’ambientazione del circo oltre a coreografie e virtuosismi della macchina da presa.

In generale, più che di una rinascita del genere negli ultimi 20 anni, sarebbe forse più corretto parlare di un aumento della produzione che ha portato il musical cinematografico a vivere dei picchi di popolarità in corrispondenza del successo, commerciale, critico o entrambi, di singoli film. L’esempio più lampante è quello di La La Land (Damien Chazelle, 2016), un film che prende a piene mani dal musical classico, dai suoi stilemi visivi e narrativi, ma lo ribalta smitizzando la visione idealistica del mondo dello spettacolo e delle relazioni rappresentata nel genere. A così breve distanza di tempo, tuttavia, risulta difficile giudicare se sia stato il suo successo a spingere, negli anni successivi, alla produzione di diversi musical cinematografici atti a capitalizzare sul fenomeno, o se si sia trattato piuttosto di un’evoluzione dovuta ad alcuni fattori concorrenti. Magari, sono entrambe le cose.

LE NUOVE SFIDE DEGLI ANNI ’10 E ’20

Negli ultimi 10 anni, il musical cinematografico ha dovuto confrontarsi con nuovi, interessanti elementi. 

Il primo e più importante è un rinnovato interesse nei confronti della sua controparte teatrale, specialmente da parte di una platea di giovani. In particolar modo, la stagione teatrale 2014\15 è stata ricca di contenuti adatti a degli adolescenti, con la presentazione di quattro spettacoli che hanno avvicinato una nuova audience al genere: Be more chill, Dear Evan Hansen, Heathers e, soprattutto, Hamilton. Il musical, con parole e musica di Lin-Manuel Miranda (che nella prima produzione interpreta anche il protagonista), è la storia dei padri fondatori americani raccontata, però, con un cast multietnico e musica rap. Partito in sordina, lo spettacolo ha raccolto l’amore di pubblico e critica, rivoluzionando il genere e contribuendo largamente, in concomitanza con le altre opere di cui sopra, al formarsi di un fandom attivo di giovani interessati al musical.

Cinque anni dopo, nel mezzo della pandemia di COVID, la piattaforma Disney+ ha rilasciato globalmente una ripresa professionale effettuata a teatro di Hamilton, un proshot (apparentemente) acquistato alla modica cifra di 75 milioni di dollari. Una dimostrazione lampante del potere d’acquisto di questa proprietà.

Che i proshot siano considerabili film è un argomento su cui il dibattito è ancora aperto. Fatto sta che Hamilton viene trattato come tale dalla stampa e dalle associazioni adibite all’attribuzione di premi, motivo per cui ci sentiamo liberi di parlare anche di questo interessante aspetto, il quale ci porta a toccare anche un altro degli elementi emersi negli ultimi 10 anni della storia del cinema: i servizi di streaming.

I proshot di spettacoli teatrali esistono da molto tempo: ci basta dare un’occhiata alla sezione “Teatro” di RAI Play per scovare filmati risalenti anche agli anni ’50. Per i musical, possiamo segnalare le prime riprese effettuate a fine anni ’70-inizio anni ’80. Solitamente venivano utilizzate per la trasmissione in TV. 

Già dai primi anni 2000 la pratica di trasmettere i proshot di musical come film per la televisione o parte di programmi televisivi, o in alternativa di venderli direttamente su supporti fisici, è aumentata, talora per indurre più persone a venire a vedere spettacoli allora in corso (Legally Blonde, 2007), per celebrarne la chiusura (Rent: Filmed live on Broadway, 2008), per rendere pubblica la registrazione di un evento unico come una versione concertata (Les Misérables in Concert: The 25th Anniversary, 2010). Si tratta comunque di una pratica sporadica in quanto il timore, nel rilasciare un proshot al pubblico, è che se lo spettacolo è ancora in corso le vendite dei biglietti crolleranno. 

Tuttavia, negli ultimi anni, in risposta alla maggiore richiesta di musical da parte di un’audience di giovani, spesso incapaci di accedere all’esperienza teatrale per i costi proibitivi o in quanto non residenti in America o Inghilterra, e probabilmente per prevenire o quantomeno disincentivare la creazione e diffusione dei bootleg (riprese di bassa qualità effettuate illegalmente durante le esibizioni), si è cominciato a rendere disponibili più proshot. Alla trasmissione televisiva e il rilascio su DVD si è aggiunta, come opzione di distribuzione, lo streaming, con diverse piattaforme che hanno arricchito i propri cataloghi con questi prodotti.

Diversi servizi di streaming si sono inoltre lanciati nella produzione e distribuzione di propri film musical. Netflix ha già rilasciato The Prom (Ryan Murphy, 2020), Tick, Tick… Boom! (Lin-Manuel Miranda, 2021) e 13 (Tamra Davis, 2022). È inoltre di prossima uscita Matilda con Emma Thompson, il che ci fa immaginare che il servizio intenda proseguire su questa strada. 

Un’ulteriore, interessante conseguenza del rinnovato interesse per il genere musical è un nuovo apprezzamento nei confronti dei performer teatrali, siano essi vecchie glorie o giovani interpreti.

Questo si è trasferito anche sul grande schermo, con l’uscita di film musical che vedono la loro partecipazione spesso in ruoli più prominenti rispetto al passato. Sognando a New York – In The Heights (Jon M. Chu, 2021), tratto da un musical di Lin-Manuel Miranda, ha come protagonista Anthony Ramos, uno dei protagonisti di Hamilton e Olga Merediz nel ruolo di Abuela Claudia, che aveva già interpretato a teatro. Il film ha inoltre al proprio interno diversi camei del cast dello spettacolo originale oltre che Daphne Rubin-Vega, una delle protagoniste del musical Rent, in un ruolo secondario. 

Il cast di West Side Story (Steven Spielberg, 2021)è composto principalmente da giovani alla prima esperienza cinematografica, molti dei quali natii del teatro (David Alvarez, Mike Faist, Ariana DeBose, iris menas¹…). Il film vede inoltre il ritorno sul grande schermo di Rita Moreno, interprete di Anita nella pellicola degli anni ’60. Diversi di questi attori sono stati molto lodati per le loro interpretazioni, e DeBose ha addirittura vinto un Oscar per la sua performance nei panni di Anita, la terza volta (e la prima per una donna) che due interpreti vincono la statuetta interpretando lo stesso personaggio.

Entrambi i film, comunque, pur ricevendo buone critiche si sono risolti in insuccessi al botteghino. Sarà da vedere se ciò porterà a riconsiderare la tattica dello stunt casting per evitare ulteriori perdite.

A CHE PUNTO SIAMO? UN BILANCIO FINALE

Il musical sta vivendo un’interessante era di rinascita e di rinnovato interesse che sta portando alla crescita nella produzione di adattamenti cinematografici o lavori completamente inediti. Tuttavia, a questo aumento non sta necessariamente corrispondendo una risposta finanziaria sempre positiva: dei film usciti l’anno scorso, solo Encanto (Jared Bush e Byron Howard) e Sing 2 (Garth Jennings) sono stati successi commerciali, segnale che forse potrebbe spingerci a credere che il musical al cinema sia ancora profittevole solo se rivolto ad un pubblico infantile. C’è però da tenere anche in conto, in queste valutazioni, della difficoltà affrontate dal cinema tutto a causa della pandemia di COVID, difficoltà di cui tuttora si sentono gli strascichi. Ugualmente, si è molto parlato della diminuzione del pubblico in sala, altro fattore trasversale a tutta la settima arte e non relativo al singolo genere.

Quello che possiamo ricavare da questa nostra (non tanto breve) retrospettiva è che certamente l’interesse del pubblico, o meglio, di un certo pubblico c’è, frustrato forse, però, dai tanti insuccessi legati al genere e agli equivoci attorno ad esso. Ugualmente, c’è interesse da parte delle case di produzione: per i prossimi anni si progetta di portare sul grande schermo almeno una trentina di musical teatrali. Che molti di questi progetti resteranno un nulla di fatto (di alcuni non abbiamo notizie da anni) e che la “febbre da musical” si esaurirà prima di poter arrivare al numero 30 è cosa quasi certa, ma è altrettanto certo che l’intenzione è sufficiente a farci capire che il genere è considerato di nuovo stimolante e potenzialmente profittevole.

Starà poi all’abilità di ogni regista riuscire a renderlo capace o meno di essere al passo coi tempi, evitando di cadere nello stesso errore compiuto dai propri predecessori. A noi non resta che aspettare ed osservare, sperando che “tutto sia rose e fiori” per noi e per il musical.

¹L’uso delle lettere minuscole è richiesta specifica dellə performer

Questo articolo è stato scritto da:

Silvia Strambi, Redattrice