Ormai un secolo fa, riflettendo sulle potenzialità della macchina da presa Dziga Vertov teorizzava il Kinoglaz (il “cineocchio”): “la possibilità di rendere visibile l’invisibile, chiaro ciò che è oscuro, palese ciò che è nascosto, di smascherare ciò che è celato, di trasformare la finzione in realtà e di fare della menzogna verità.”

Haneke ha compreso bene la lezione del regista sovietico e solo un vero umanista come lui poteva vincere la scommessa di trasportare tale insegnamento nella contemporaneità – pur mescolando gli elementi in un solido thriller -, come già era accaduto con F come falso di Orson Welles (1973) e Strade perdute di David Lynch (1997).

La giuria della 58ª edizione del Festival di Cannes (che, presieduta da Emir Kusturica, assegnò la Palma d’oro a L’Enfant – Una storia d’amore dei fratelli Dardenne) si è trovata a dover fare i conti con l’ottavo lungometraggio per il cinema di Michael Haneke, un’opera che, come ogni fatica del maestro austriaco, non poteva lasciare indifferenti (e infatti a Cannes ottenne il Premio alla Regia): la vita della famiglia borghese Laurent – composta Georges, giornalista letterario, e da sua moglie Anne – cambia radicalmente con il misterioso arrivo di diverse videocassette. Ciascun videotape mostra piccoli sipari della loro vita familiare, aggiungendo inoltre inquietanti disegni dall’ambiguo significato. Spinto dai contenuti sempre più personali dei nastri, Georges decide di indagare sull’identità del mittente senza alcun aiuto della polizia (dal momento che nessuna minaccia è stata esplicitamente rivolta ai Laurent), scoprendo molto presto di dover fare i conti con il suo passato e le sue menzogne.

IL CINEOCCHIO DI HANEKE COME ESPIAZIONE DELLA COLPA

Niente da nascondere è senza dubbio il lavoro di Haneke più stratificato e complesso, ma anche più stimolante; il tema della realtà-rappresentazione anticipato da Vertov è il più caro al regista austriaco (Benny’s Video, Funny Games), e (forse) strettamente correlato al suo rapporto con il progresso tecnologico: quanto è grande lo scarto fra la realtà vissuta e la percezione che ne offrono i media contemporanei (compreso il cinema)? Quanto è coercitiva la rappresentazione della realtà per la nostra percezione della stessa? Non a caso in Niente da nascondere vi è ampio uso dei piani sequenza, che recludono e imprigionano i personaggi nell’inquadratura, limitando enormemente i loro movimenti.

Lo sgretolamento delle nostre certezze è suggerito fortemente anche dalla forma assunta dai nastri, quella di camere di videosorveglianza, tipicamente concepite come strumento di controllo per la commissione di crimini, ma che diventano ora il crimine stesso.

Sarebbe banale per Haneke ragionare soltanto sul cinema: non è certamente velata la sferzata al ceto-medio europeo contemporaneo; niente può scalfire il borghese finché le menzogne non riguardano il suo nido familiare e la sua cerchia stretta di contatti. Una sola registrazione anonima manderà in sfacelo la vita di Georges, portando a riemergere le sue menzogne, che si tramutano ora in quelle della collettività di un intero paese. Per Haneke ognuno ha la propria colpa da espiare, nessuno è innocente, bensì condannato. E con tutti i nostri scheletri nell’armadio è impossibile sfuggire dalle nostre colpe: in fondo le bugie sono necessarie per la sopravvivenza umana.

Nella sua intervista-autobiografia (a cura di M. Cieutat e P. Rouyer, Non ho niente da nascondere. Interviste sul cinema e sulla vita, Il saggiatore 2019), il regista afferma che “lo spettatore non deve osservare, ma semplicemente guardare i frammenti della realtà che gli mostro. E’ come nella vita, non si conosce mai tutta la realtà, solo piccoli pezzi. La nostra percezione del mondo è sempre frammentata. […] Nella vita di tutti i giorni, non si sa mai se qualcuno stia mentendo. Se potessimo scoprire le bugie, non varrebbe più la pena mentire”.

Perciò non disperiamoci: non mentiamo solo noi, ma anche le immagini nel momento in cui il nostro sguardo si imbatte in esse. Le nostre verità saranno reciprocamente concepite come menzogne, perché il cinema è sempre al contempo menzogna e verità.

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Alberto Faggiotto, Redattore