L’ETÀ DELL’INNOCENZA (DEL CINEMA)

Già prima di New York, New York (1977), qualcosa degli echi e delle atmosfere del musical americano classico fa capolino nell’universo filmico di Martin Scorsese, precisamente nel prologo di Alice non abita più qui (1974): una bambina, mentre è richiamata con insistenza dalla madre in casa per la cena, canta soave e con fare sognante – del resto, porta il nome dell’eroina di Lewis Carroll – nel cortile di una fattoria che sembra fuoriuscita dalla fantasia escapista del Mago di Oz (1939), e immersa nei tramonti carichi e arrossati di Via col Vento (1939). Si tratta di un flashback rigorosamente fleminghiano della protagonista (la Ellen Burstyn de L’esorcista, 1973), una donna resiliente che, invecchiando, ha dovuto rinunciare ai sogni di gloria come artista, per far posto a una scialba esistenza di ambizioni ristrette. 

È curioso e sintomatico che in questo woman film, immesso negli itinerari di nomadismo esistenziale della New Hollywood, in un registro di quotidianità prosaica e realismo psicologico, i ricordi personali e il “posto delle fragole” di Alice assumano i connotati formali e replichino mimeticamente la messa in scena dei generi del grande spettacolo del cinema classico: il musical e il melodramma (condensati nei loro capisaldi più iconici). 

La materia con cui sono forgiati i sogni hollywoodiani in technicolor è qui per Scorsese un’affettuosa scenografia mentale, che rievoca un passato individuale e idealizzato fatto di memorie modellate primariamente dal cinema. Un serbatoio di reminiscenze rivissute attraverso la lente dell’immaginario (dell’infanzia), che non può trovare spazio vitale, sbocco e realizzazione compiuta nella dura e adulta realtà di una madre vedova intenta a sbarcare il lunario come Alice. 

Dopo la discesa agli inferi nella fosca e interminabile notte metropolitana di Taxi Driver (1976), Scorsese, in New York, New York, riparte proprio da qui: dall’inestricabile e divorante antinomia tra l’onnipotenza del cinema – la ricostruzione di un magico mondo bigger than life, tanto potente e protettivo quanto fragile e illusorio -, e l’aspra, indocile dimensione disincanta della realtà pressante e impietosa, che in un coacervo di conflitti, ostacoli e compromessi complica, logora e guasta irrimediabilmente i rapporti umani. Osteggiando la possibilità di conquistarsi un agognato quanto impossibile happy end, se non a prezzo di una rinuncia al romance, sacrificato sull’altare del successo professionale. 

QUEI BRAVI RAGAZZI (DEL MUSIC HALL)

La storia prende il via all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, e abbraccia l’incontro casuale tra l’irrequieto e imprevedibile sassofonista Jimmy Doyle (Robert De Niro) e la dolce e caparbia aspirante cantante Francine Evans (Liza Minnelli), sullo sfondo di un’affollatissima America festante e ottimista, che intasa le strade e si riversa scatenata a ritmo di swing in una gigantesca ballroom newyorkese. 

Dopo un estenuante quanto invadente corteggiamento di lui, e un’ancor più goffa e rocambolesca fuga da un hotel, tra schermaglie e provocazioni reciproche i due si trovano a dividere una corsa in taxi, diretti a un piccolo club in cui Jimmy cerca un ingaggio, venendo assunto proprio grazie all’accompagnamento vocale di Francine, che convince il proprietario (il pezzo You Brought a New Kind of Love to Me di Maurice Chevalier rimanda esplicitamente a una scena di Monkey BusinessQuattro folli in alto mare (1931) dei Fratelli Marx). 

Vinte le iniziali riserve per il temperamento sfacciato e assillante di Jimmy, assistendo ai suoi virtuosistici assoli al sax Francine comincia a innamorarsi del suo romanticismo di strada un po’ cialtrone un po’ maledetto: è l’inizio di un sincero ma turbolento sodalizio musicale, di un duetto esistenziale che si rincorrerà nel corso degli anni come un ostinato refrain continuamente spezzato e ricomposto. Un pazzo rapporto che cerca la fusione dell’accordo perfetto (quel major chord fatto di amore, musica e denaro di cui parla Jimmy, non sempre in quest’ordine), come la sublime armonia unificante di melodia e parole. Un impossibile equilibrio tra le ambizioni di celebrità di entrambi e il ritiro a vita privata nel sostegno di affetti autentici ma anonimi. 

Prodotto da Irwin Winkler e Robert Chartoff, coppia d’oro fresca reduce dal trionfo dei tre Oscar di Rocky (1976) agli Academy Awards del 1977, sceneggiato da Mardik Martin e Earl Mac Rauch, e girato da un Martin Scorsese che, a trentaquattro anni, è all’apice della consacrazione internazionale (l’anno prima, Taxi Driver (1976) ha conquistato la Palma d’Oro a Cannes), nonché vertice riconosciuto della New Hollywood, il film, uscito in USA il 21 giugno 1977, si rivela, un po’ inaspettatamente, un sostanziale fallimento al botteghino: da un budget di quattordici milioni di dollari (molto alto per l’epoca), in sala riesce a rastrellarne appena sedici e mezzo. 

Tanto che, scottata dal flop, la distribuzione United Artists scorcia notevolmente la pellicola a una copia di 136 minuti (dai 153’ iniziali), e soltanto la riedizione del 1981 reintegra le scene tagliate e restaurate (su tutte, il bellissimo numero musicale Happy Endings, di cui restava solo una piccola porzione nel theatrical cut), consegnandoci il film nel fluviale splendore del suo final cut (164 minuti). 

THE KING OF MUSICAL DRAMEDY

New York, New York è al tempo stesso un tributo malinconico, una rievocazione nostalgica da cinefilo dotto e affettuoso, e una lucida e pungente critica revisionista del musical melodrama hollywoodiano, rivisto alla luce ombreggiata del pessimismo sociale contemporaneo (dell’epoca).

Dall’avventura delle riprese in strada e in esterni di Taxi Driver, Scorsese approda a un film completamente girato in studio, con il cruccio di riprodurre la stessa abbagliante patina cromatica e visuale dei grandi musical del passato, con particolare attenzione all’MGM touch delle opere prodotte da Arthur Freed

Non potendo disporre dell’originale Technicolor a tre bande (allora non più in uso), opta per una pellicola in Eastmancolor single-strip. Ricreando l’effetto cercato già prima di andare in stampa, con il magnifico lavoro sinergico della fotografia di László Kovács (DOP di Easy Rider (1969) e dei grandi registi della New Hollywood come Bob Rafelson e Peter Bogdanovich) e delle scenografie di Boris Leven (Oscar per West Side Story (1961) di Robert Wise), che “dipingono” vistosamente il set e “truccano” artigianalmente il profilmico fino a ottenere l’impasto visivo desiderato (fondamentale, allo stesso scopo, la resa dei costumi rinforzati di Theadora Van Runkle). 

A partire dalla ripetizione del titolo, allitterato come un ritornello, emerge la doppia natura del film, come se in ogni frammento coesistessero e frizionassero, spalmate in un ideale negativo e positivo fotografico, due parti e due anime di New York, compenetrate l’una nell’altra: quella mitica, artificiosa e sfavillante, in un revival formale che si fa carico dell’omaggio sognante e cinefilo a un’epoca di produzioni ormai scomparse; e quella realistica di scottante attualità, che riporta – filtrata dietro l’ambientazione anni ’40 e ’50 -, un’atmosfera mesta di fine (della fabbrica) dei sogni e di brusco risveglio dalle illusioni di celluloide. In cui emergono il brulicare delle solitudini metropolitane e l’aggressiva esplosione dei conflitti dirompenti e autodistruttivi dei nuovi protagonisti dello spettacolo (e della vita cittadina). 

C’è dunque un forte contrasto tra il look volutamente posticcio dei fondali artificiali (tersi crepuscoli aranciati, scheletri di alberi tra fiocchi di neve finta, come quella che cade in Incontriamoci a Saint Louis (1944) di Minnelli), i neon monocromatici (il rosso saturo come un allarme di cui è verniciato uno dei locali, restyling chic e ultrapop dell’infernale pub di Mean Streets, 1973), lo squillante décor anti-naturalista dei balletti, e le interazioni dei personaggi dialoganti in foreground, ritratti invece in uno stile cinematico di inquieta e vibrante modernità

Imperniato su schegge di scabro e ombroso iperrealismo, sull’improvvisazione dei dialoghi e lo scontro dei caratteri in disordinata presa diretta. Pieni e vuoti di recitazione spontanea in un documentario di nevrosi attoriali che Scorsese mutua dal cinema d’autore europeo, e soprattutto dal cinema indipendente metropolitano dell’amato John Cassavetes.

Ogni sequenza sembra contenere l’estetica della vecchia e della nuova Hollywood compresse nello stesso frame, in una coabitazione meta-testuale stridente che spiazzò la gran parte dei critici e del pubblico dell’epoca, decretando il fiasco del film. Oggi comprendiamo invece come questo brusco stacco tra sfondo e figure, riesca a stagliare e a dare ancor più rilievo alla profondità e alla verità dei personaggi agenti in una ricostruzione così marcatamente finta. L’operazione teorica di Scorsese è in anticipo sui tempi, precorre quella tendenza autoriflessiva del citazionismo postmoderno – che esploderà definitivamente negli anni ’80 e ’90 -, in cui il film si forma e ragiona intelligentemente sul precipitato di materiali, influenze e sonorità di cui è composto. 

Sono ridotti al minimo i primi piani, che intervengono solo nei momenti appartati a più alta incandescenza emotiva (gli occhi di Francine allo specchio, dopo un bilancio esistenziale condotto in silenzio, risistemate le vecchie fotografie). Per il resto, la filologia figurativa di Scorsese ricalca fedelmente le inquadrature e i formati dei film della classicità che intende rievocare, vale a dire il medium shot (la mezza figura) e il piano americano. 

Molte scene clou e quasi tutti i furenti bisticci della coppia avvengono in auto (chi dei due è alla guida dell’esistenza, e chi, al contrario, si fa trasportare dall’altro come un passeggero, sembra domandare Scorsese?). Persino le riprese dagli abitacoli, con la città all’esterno dell’auto che si srotola scorrendo dai finestrini, impiegano un trasparente rudimentale, decisamente anacronistico per le produzioni anni ‘70.

A livello tematico, non deve ingannare una presenza maschile esorbitante, opprimente e vessatoria come quella incarnata del Jimmy Doyle di De Niro, sorta di famelico e ostinato lupo di Broadway Street. Come già accaduto in Alice non abita più qui, grazie soprattutto al magnetismo luminoso di Liza Minnelli, Scorsese si concentra piuttosto su un personaggio femminile complesso, sfaccettato e determinato come Francine, che resiste alle gabbie dei ruoli e alle etichette di genere riuscendo ad affermarsi clamorosamente, ben più della sua controparte, nella carriera artistica e imprenditoriale, senza esaurirsi in quei legami materni che pur accoglie, a differenza di Jimmy che li allontana con irresponsabile viltà infantile. 

BANDS OF NEW YORK

Jimmy e Francine (splendida l’alchimia allacciata da De Niro e la Minnelli), nelle loro dinamiche scoppiettanti, inscenano un duetto oppositivo tra due diversi modi di reinterpretare lo spirito (del tempo) newyorkese – e americano tout court, per estensione – attraverso la musica: Jimmy, con i suoi assoli sfrenati, imbizzarriti e fuori registro, rappresenta l’irruente sperimentalismo che scompagina le vecchie ballate rassicuranti. Francine è l’eccellente artista pop più legata alla struttura e allo spartito tradizionale della canzone old standard

Per questo insieme sono perfetti e complementari, facendo appunto combaciare la musica (lui) e il testo (lei) di quel capolavoro immortale di Theme From New York, New York (scritta in realtà appositamente per il film da Fred Ebb e John Kander, verrà successivamente registrata e resa celebre da Frank Sinatra, restando tutt’ora, dopo il proclama ufficioso del sindaco Ed Koch nel 1985, inno simbolico della città). 

Dal piano della relazione individuale, la vicenda di Jimmy e Francine slitta poi sul livello storico e cronologico, per fissare un epocale momento di transizione riguardante il panorama musicale statunitense, che si inserisce come una delle tessere del grande mosaico di Scorsese sulla Nazione americana in evoluzione (sonora): il rapido declino, nel secondo dopoguerra, dell’era delle big band. I grandi complessi orchestrali swing (come quello del trombonista Tommy Dorsey, visibile all’inizio del film), che avevano furoreggiato fin dagli anni ’30, ora in crisi con la chiusura e il calo di appeal delle grandi sale da ballo (qui mostrate con una serie di malinconiche dissolvenze, che contemplano dall’alto il progressivo svuotamento degli avventori in pista), soppiantate dall’avvento di nuovi generi e forme di spettacolo musicale più libere e aperte all’improvvisazione, come il bebop (Jimmy Doyle, in questo, è un precursore alla Charlie Parker) e, più tardi, il rock’n’roll di Elvis. 

In questa oscillazione tra lo swing da sala e il jazz più innovatore, tra la hit popolare e la ricercatezza stilistica, Scorsese ritrova la dialettica in cui si dibatte la sua opera cinematografica in cerca di un pubblico, tra la natura commerciale e l’afflato artistico, nel dissidio che turba l’anima del regista tra l’essere shooter pop-mainstream o performer autoriale. 

PLAY IT AGAIN, MARTIN

La regia mobile, precisa e istintiva di Scorsese è già quella di un maestro alla perfetta sintesi di avanguardia e accademia, che sa giostrare le variazioni compositive, le scale sonore e la scaletta visuale di un film che scorre tra l’happening concertistico e la sua intermission (e intromission) nei drammi privati dietro le quinte. Alterna con sapienza mirabile le ampie scene di massa, con centinaia di comparse in studio, e le sceneggiate dell’intimità da camera, il passo a due della coppia (il bacio prolungato proteso dalla portiera del taxi è una tenera gag) e i balletti coreografici dei figuranti, gli assoli fulminanti di Jimmy (“doppiato” allo strumento dal musicista Georgie Auld) come le esibizioni velate e seducenti della chanteuse Francine (prima dell’esplosione finale con l’imperiosa Theme From New York, New York), lo show rapsodico e accelerato on stage e le pause di mesta e riflessiva solitudine celata alla ribalta. 

La macchina da presa si aggira attorno al palcoscenico con trascinanti e fluidi movimenti in continuità, come un discreto ma fondamentale special guest del complesso che suona il suo spartito registico di ghost notes, seguendo l’andamento sincopato e improvvisato delle cavalcate jazzistiche. In un jam session stilistica tra le morbide incursioni del dolly e gli stacchi delle panoramiche a schiaffo, in cui anche i cut di montaggio “attaccano” a tempo sui cambi di ritmo – in crescendo o in levare – e sulle acciaccature della colonna musicale. 

Un tipico e coinvolgente camerawork che Scorsese riproporrà subito nel doc L’ultimo valzer (The Last Waltz, 1978), sull’ultimo live del gruppo rock The Band, e nel ring di Toro Scatenato (Raging Bull, 1980), con la coreografia dei pugni e la danza dei corpi, nello scontro dei pugili, che vengono modulate dai ganci sonori della musica. E che negli anni perfezionerà sempre di più, fino all’apoteosi dell’artificio formalista di Casinò (1995): il punto terminale della sua riflessione – iniziata, forse, proprio con New York, New York –  sul romance cinico, umano e materialista del perdente di successo, bloccato in uno stato di possessiva pulsione infantile (sempre incarnato, non a caso, da Robert De Niro), che finisce risucchiato nelle sirene di un mondo artificiale di pura luce abbagliante, rinchiuso su se stesso e sulle proprie ossessioni, come in un enorme set cinematografico senza uscite di sicurezza. 

MUSICA PER I TUOI SOGNI (INFRANTI)

Sono molte le influenze cinefile e i prelievi diretti che Scorsese riversa in New York, New York. La stessa scelta come protagonista di Liza Minnelli – già spumeggiante ballerina del varietà e ragazza in dolce attesa che si dibatte tra amore, vizi e carriera in Cabaret (1972) di Bob Fosse (per cui vinse l’Oscar alla miglior attrice) -, da sola richiama un imprescindibile corpus di opere, una factory (meta)cinematografica e una legacy familiare che hanno fatto la storia della golden age del musical (tra il padre Vincente celebrato maestro e la madre incommensurabile diva ne Il mago di Oz e in È nata una stella (1954) di George Cukor). Mentre Robert De Niro trascina con sé l’irruenza veemente e le terribili fragilità del nervoso e instabile animale metropolitano, già esplorate nelle precedenti prove scorsesiane, con un personaggio sgradevole e esasperante modellato sul fumantino gestore di night club interpretato da Bing Crosby nella musical comedy Cieli azzurri (Blue Skies, 1946) di Stuart Heisler. 

Lo spunto generale per il plot viene da Musica per i tuoi sogni (My Dream is Yours, 1949) di Michael Curtiz, romantic comedy musicale con la coppia di cantanti Doris Day e Lee Bowman, da cui si riprende il personaggio della vocalist di talento sconosciuta che cerca di sfondare sul palcoscenico, rivaleggiando con un partner invidioso e narcisista, e l’annesso tema delle relazioni private inasprite e disperse nel regime di concorrenza. È un film leggero e tutt’altro che memorabile, ma secondo Scorsese – come spiega in prima persona nel suo doc divulgativo Un secolo di cinema – Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese (1995) -, è esemplare di quel bitter mood del musical Warner del secondo dopoguerra che incrina l’atmosfera luminosa e rassicurante del genere, per evidenziare sottotraccia la crisi dei rapporti e un abisso di disillusione che serpeggia ovunque: quello stesso vento di smarrimento sociale e cupa amarezza che Scorsese registra nell’America degli anni del post-Vietnam e che infonde, camuffato in panni retrò, in New York, New York

Per lo stesso motivo – illuminare le sfumature dissonanti e il lato oscuro di un genere tipicamente solare e speranzoso -, Scorsese fa reinterpretare a Liza Minnelli la canzone The Man I Love, proveniente dall’omonimo film di Raoul Walsh del 1947 (dove era cantata da Ida Lupino), come citazione che si fa latrice dell’elemento di disturbo e inquietudine noir infiltrato nel musical

“MY LIFE IS LESS DRAMATIC, NOT REMOTELY CINEMATIC”

Nel vorticoso e rutilante numero musicale Happy Endings (opera del songwriting team Fred Ebb – John Kander), inserito a due terzi buoni di film, Scorsese fa invece esplodere, per contrasto, tutta la sfarzosa e incontaminata potenza immaginifica e cromatica del musical lussuoso, levigato e luccicante come un diamante. Una salvifica e splendente isola felice che interrompe il flusso della narrazione, e ribadisce la capacità di evasione, la forza catartica del cinema di rendersi impermeabile e di sanare, almeno sul grande schermo, frustrazioni, conflitti e tensioni insopportabili che restano irrisolte nella realtà. 

L’entusiasmante balletto è il climax visivo, la mise en abyme che replica la storia del film, il compendio narrativo che riepiloga la biografia e il soliloquio cantato dei sogni di gloria (ir)realizzati dalla protagonista. Modellata sul segmento Born in a trunk di È nata una stella (1954), presenta un florilegio traboccante di suggestioni visive, dalle geometriche coreografie floreali di Busby Berkeley (Donne di lusso, 1935) all’estetica della grande stagione del musical MGM di Stanley Donen (Cantando sotto la pioggia, 1952) e Vincente Minnelli. Proprio Minnelli appare come il nume tutelare più apprezzato da Scorsese: l’immagine notturna dall’alto, con Jimmy che suona il sax circonfuso dalla luce a effetto riflettore di un lampione stradale, richiama graficamente quella dell’esplosivo suonatore di tromba alla finestra di Spettacolo di varietà (The Band Wagon, 1953). 

Lo stesso, metaforico cerchio di luce che racchiude il malinconico isolamento blues di Jimmy, viene successivamente acceso nel buio graduale di uno studio di incisione, per circoscrivere la conquista dello spot(light) di presenza scenica in solitaria, il “piedistallo” da solista che Francine riesce a conquistarsi salendo in cattedra e di tono sulle note alte di The World Goes Round: il carosello dell’amore, dopo mille giri a vuoto, sembra arrestarsi per fare posto alla consacrazione della fama. 

“THESE VAGABOND SHOES… THEY ARE LONGING TO STRAY”

New York, New York è racchiuso in una struttura circolare in cui il finale ritrova i luoghi e la strada degli inizi, ma nel tempo intercorso tutto appare rovesciato: Jimmy rivede Francine dalla platea della stessa ballroom in cui si erano incrociati la prima volta: lui la ammira seduto ai tavolini, ma lei è ormai regina incontrastata e inarrivabile, star del main stage presa a esibirsi nella magniloquente interpretazione della title track del film. Il mesto e imbarazzato rendez-vous che va in scena tra i due nei camerini, aperto con la bella immagine in profondità di campo che, per mezzo di un ideale split screen, riavvicina nel quadro due persone ormai distanti nella vita, è simile all’ultimo incontro, colmo di rimpianti, tra Deborah e Noodles in C’era una volta in America (1984) di Sergio Leone. 

Sfumato anche l’ultimo, disatteso appuntamento, non resta che il ritorno sul dettaglio iniziale delle scarpe di Jimmy sull’asfalto bagnato (come quelle del fantomatico Harry Lime de Il terzo uomo (1949) di Carol Reed): le impronte di tutto il cammino percorso per ritornare sui propri passi, coi piedi piantati per terra, parzialmente sconfitto. In un vicolo cieco della passione in cui nessuno balla più sotto la pioggia, e il sogno di far risuonare la nota sentimentale del major chord è definitivamente tramontato.

Questo articolo è stato scritto da:

Daniele Badella, Redattore