Arrivati alla fine di questa settimana tematica dedicata al noir (qui per scoprire tutti gli approfondimenti dei giorni scorsi, nel malaugurato caso in cui ve li siate persi) risulterebbe ripetitivo e lapalissiano andare nuovamente a sviscerare i cardini stilistici-narrativi-tematici di quello che probabilmente è, insieme al western, il genere più codificato e riconoscibile di tutto il panorama cinematografico della Hollywood classica. Se da un lato il fascino di Humphrey Bogart – in impermeabile, cappello e sigaretta in bocca – resta assoluto e immortale, dall’altro è sicuramente interessante andare a capire come il genere si sia evoluto nel corso dei decenni, frammentandosi, ibridandosi e destrutturandosi, per continuare a proporre un discorso pienamente coerente ai pilastri tematici noir, utilizzando però linguaggi cinematografici più contemporanei. 

Per comprendere le molteplici interpretazioni che l’utilizzo del termine noir ha assunto a partire dalla fine degli anni ’60 è necessario iniziare da quella che viene spesso considerata come la pellicola-madre del neo-noir, ovvero Chinatown di Roman Polanski (1974), opera che rivitalizza un intero genere, calandolo nuovamente nella contemporaneità e traducendolo nella realtà degli anni Settanta. Pur mantenendo un impianto formale-narrativo classico – con i personaggi codificati del detective e della femme fatale che devono muoversi in una realtà misteriosa, fatta di intrighi e corruzione – Polanski aggiunge un tassello fondamentale che eleva Chinatown da “semplice opera noir meravigliosamente costruita” a “momento spartiacque della storia del cinema”, ovvero il complotto politico che mette in moto tutta la vicenda. Proprio come in altri grandi noir classici – su tutti La Fuga di Delmer Daves (1947) in cui il senso di paranoia era diretta rappresentazione della situazione politica e sociale dell’America post Seconda Guerra Mondiale – l’opera di Polanski riflettendo la totale perdita di fiducia nei confronti delle istituzioni, in un paese sconvolto nelle sue fondamenta politiche dallo scandalo Watergate, riscopre la potenza artistica di un genere che sembrava indissolubilmente legato al contesto storico della sua epoca d’oro e che invece viene catapultato di forza nel tumulto rivoluzionario della Nuova Hollywood. E’ proprio questo, dunque, il periodo in cui i grandi autori degli anni ’70 comprendono come il noir sia ancora un veicolo efficace per trattare tematiche più vicine a una generazione di artisti con nuove necessità espressive rispetto alla stagione classica: sempre nel 1974, ad esempio, esce Yakuza di Sydney Pollack, un altro capolavoro del genere che, trasferendo una narrazione abbastanza canonica nel contesto giapponese, trasforma il grande topos della realtà indecifrabile e dedalica del noir anni ’40 in una riflessione molto più ampia sulle conseguenze politiche e culturali della seconda guerra mondiale sui rapporti Stati Uniti – Giappone, analizzate qui con uno sguardo più consapevole e critico nei confronti dell’America rispetto al passato, in un’operazione molto simile a quanto già fatto dallo stesso Pollack con il western Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (1972) nell’analizzare il rapporto americani-pellerossa. 

Oltre, quindi, alla rinnovata capacità di rappresentare attraverso il genere puro uno spettro tematico più aderente alla realtà contemporanea, è ugualmente importante capire la frammentazione e l’evoluzione degli stilemi noir e il loro mescolarsi con elementi caratteristici di altri correnti cinematografiche. In altre parole, si assiste alla parcellizzazione del linguaggio noir, che diventa in questo modo di grande influenza anche per altri generi, i quali – prendendo in prestito elementi alle volte tematici, alle volte estetici, o ancora narrativi – li calano in contesti estranei al racconto classico, creando un ibrido nuovo. Prendendo in analisi, per esempio, la grande narrazione del detective privato che si muove in una metropoli alienante e alienata, riflesso del degrado morale della società e della perdita della propria identità, è impossibile non citare film come Blade Runner o Seven, che mantenendo una spina dorsale fortemente noir, traslano questi stilemi narrativi in generi alle volte confinanti, come il thriller a tinte quasi orrorifiche di Fincher, o al contrario lontanissimi, come la fantascienza scottiana. Si pensi anche all’evidente mescolamento tra noir e cinema d’azione, avvenuto soprattutto a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, grazie all’opera di maestri del calibro di Michael Mann, Ridley Scott e William Friedkin (di cui abbiamo parlato in questa puntata del nostro podcast) che hanno, di fatto, riscritto le regole del noir moderno: la fotografia classica, ricca di profondi chiaroscuri e ombre espressioniste, lascia il posto all’iper-cromatica illuminazione al neon della metropoli moderna, non più misteriosa nella sua oscurità, quanto più straniante nel suo costante mutamento; il protagonista-simbolo smette di essere l’affascinante detective privato bogartiano per trasformarsi molto spesso in un – altrettanto affascinante a dire il vero – poliziotto ai limiti della legge, un cane sciolto che si muove secondo il proprio codice di valori, un uomo dal passato oscuro e violento, certamente meno elegante rispetto ai grandi personaggi classici, ma ugualmente simbolico dal punto di vista morale. 

Allo stesso modo, anche la rappresentazione della dark lady subisce una profonda rivoluzione in questa nuova corrente cinematografica: se, ad esempio, l’iconica femme fatale – leggasi Barbara Stanwyck ne La Fiamma del Peccato (1944) o la Jane Greer de Le Catene della Colpa (1947) – cercava di mascherare la propria natura ambigua dietro un’apparenza ingenua e innocente, quella del noir moderno, invece, si fa portatrice di una preponderante carica erotica, vera e propria arma principale nella seduzione e nella manipolazione della sua controparte maschile. Esempio massimo di questo tipo di personaggio è, senza dubbio, la Sharon Stone di Basic Instinct (1992), passata alla storia come una delle dark lady più iconiche e sensuali del cinema moderno, ma anche – in tempi più recenti – la Rosamund Pike di Gone Girl (2014) o la Cameron Diaz di The Counselor (2013). 

Se è vero, quindi, che esiste un’intera corrente neo-noir che, facendo di questa riscrittura del canone estetico-narrativo il proprio punto focale, rivendica un’appartenenza di genere molto marcata, non bisogna sottovalutare le contaminazioni più sottili, in cui l’influenza noir può limitarsi alle tematiche fondamentali alla base dell’opera, che può successivamente dipanarsi invece su altri binari. E’ il caso, ad esempio, di film come Carlito’s Way (1993) che si presenta in tutto e per tutto come un gangster-movie tradizionale, ma in cui il discorso nevralgico ruota intorno al concetto – tipicamente noir – dell’impossibilità di slegarsi e di liberarsi dal proprio passato. Allo stesso modo, il topos dell’avidità e della spirale mortifera causata da una grossa somma di denaro è al centro di grandi film come Non è un Paese per Vecchi (2007) e Soldi Sporchi (1998 Sam Raimi), entrambi quanto mai lontani dalla narrazione canonica e codificata del genere. Perfino in pellicole più sperimentali, di cui risulta difficile la categorizzazione, come Memento (2000) una lettura fondamentalmente noir fornisce chiavi più che coerenti per l’interpretazione tematica dell’opera: cosa è il film, infatti, se non la rappresentazione di una realtà labirintica, indecifrabile, forse onirica e segmentata in cui il protagonista fatica a muoversi nel tentativo di risolvere un mistero? E cos’è questa rappresentazione se non la definizione stessa di Noir?

Nel cinema moderno e contemporaneo, in conclusione, i Robert Mitchum e gli Humphrey Bogart in trench e cappello si sono estinti, lasciando spazio ai Michael Douglas e ai William Petersen con distintivo e fondina annessa, ma questo non significa – per fortuna – che l’eredità del grande cinema noir degli anni ’40 e ’50 sia andata perduta, svanita sotto la luce di lampade al neon e inseguimenti al cardiopalma, al contrario ha assunto una nuova connotazione multiforme, sfaccettata, spezzettata e fumosa, proprio come ogni vera storia noir che si rispetti dovrebbe essere.

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Alessandro Catana,
Vicepresidente Associazione e caporedattore.