Una piccola e mai troppo esaustiva storia del Musical nel Cinema d’Animazione Americano.

Nella concezione tipica del Cinema Classico di Hollywood l’animazione è sempre stata legata a doppio filo ad altri due generi, a loro volta quasi inscindibili: la commedia e il musical. Tant’è che in molti premi, come i Golden Globe, i film animati vengono automaticamente inseriti nelle categorie riservate al “Miglior Film Commedia o Musicale”. Senza contare che agli stessi Premi Oscar i film animati ricevono premi e nomination soprattutto nelle categorie concernenti la sfera uditiva ovvero Canzone, Colonna Sonora, Sonoro e Montaggio Sonoro. La sola Disney, ad esempio, in queste categorie ha raccolto ben 16 vittorie su un totale di 54 nomination. 

E la visione del pubblico contemporaneo non è così distante: nonostante le deviazioni dalla forma musical in animazione siano innumerevoli, lo spettatore medio è sempre legato alla concezione del cartone animato come storia sentimentale di ambientazione fiabesca, con qualche momento drammatico, genitori morti, animaletti e oggetti parlanti come spalle comiche, il tutto enfatizzato da musiche da Broadway. Disney negli anni ‘90 ha senza dubbio influito su questa visione. Ma in realtà la nostra storia parte molto prima di quel mondo magico popolato da sirenette, belle e bestie, ladruncoli arabi e leoni shakespeariani.

Già nei suoi primi 30 anni di esistenza (ovvero i primi trent’anni del 900), l’animazione cinematografica tout court andava a passo di musica, e le più grandi rivoluzioni del medium riguardavano proprio il rapporto tra dimensione uditiva e visiva. Non è un caso che quella famosa immagine con un sorcio al timone di un vaporetto nel 1928 (primo tassello di un giro d’affari da 100 miliardi) sia diventato così famoso: è stato, infatti, il primo cartone animato con il sonoro sincronizzato (il primo film sonorizzato, The Jazz Singer, era uscito appena un anno prima)

Negli anni ‘30, in virtù di questa innovazione, gli studi di produzione statunitensi cominciano a differenziare la loro produzione, spesso dividendola in due serie parallele: una in cui la musica e gli effetti sonori costituiscono una sottolineatura dell’azione scenica, un’altra in cui sono i disegni animati stessi a “rappresentare” ciò che la musica esprime, magari sperimentando anche di più col colore e con i nuovi personaggi. Anche se in entrambi i casi la maggior parte delle volte si assiste a 7 minuti di balletti e gag slapstick.

È il caso, ad esempio, delle serie Warner Bros dei Looney Tunes e delle Merrie Melodies. Nella prima, in teoria, a prevalere dovrebbero essere l’immagine e la narrazione, nella seconda invece il sonoro, ma in breve tempo le differenze si fanno sempre più labili e risulta davvero difficile (e anche abbastanza inutile) allo spettatore moderno distinguere l’appartenenza di un corto di Bugs Bunny all’una o all’altra serie.

Alle Merrie Melodies fecero eco da casa Disney le Silly Symphonies, nate con The Skeleton Dance nel 1929 dopo un acceso diverbio tra Walt stesso e il compositore Carl Stalling, che considerava a dir poco riduttivo l’uso fatto della sua musica. E infatti di lì a qualche anno sarebbe passato alla Warner, non prima però di aver creato i temi musicali per il film spartiacque della serie: The Three Little Pigs, del 1933. Un mini musical di 7 minuti in cui viene settata una formula estremamente efficace: musical animato, di ambientazione fiabesca, con un design dei personaggi semplice ma riconoscibile e un antagonista d’impatto. Ma soprattutto musiche orecchiabili con il tema principale Who’s afraid to the Big Bad Wolf? che risuonerà nelle radio degli americani rincuorandoli negli anni della Grande Depressione. Un momento seminale nell’evoluzione della musica nei film animati.

E sicuramente una follia produttiva come Biancaneve e i Sette Nani (1937) poteva superare gli enormi costi di realizzazione solo seguendo la ricetta perfetta. Il film è lo spettacolo a cui tutti vogliono assistere, il musical animato che fa sognare lo spettatore grande e piccino come nessun attore in carne e ossa potrà mai. Qualsiasi sospensione dell’incredulità messa a dura prova dagli attori che dal nulla iniziano a cantare, è accarezzata dall’assolutezza del disegno. Lo spettatore vede Judy Garland prima di vedere Dorothy ne Il Mago di Oz, ma quando vede Biancaneve vede solo Biancaneve. 

Certo, le canzoni oggi non possono apparire che datate, ma l’estremo ottimismo dei testi e delle musiche raggiunge i cuori di tutti gli spettatori. E nel passo successivo, Pinocchio (1940), questo spirito sognante e ottimista trascende con When You Wish Upon a Star, che diventa immediatamente l’inno della Disney stessa. 

Dai toni più semplici e giocosi di Dumbo (1941) passiamo alla solennità naturalistica di Bambi (1942), da un folle periodo di mini musical a risparmio come Musica Maestro del 1946 (e certo lo swing e gli altri generi da classifica anni ‘40 non hanno retto alla prova del tempo) passiamo alla totale restaurazione del canone classico negli anni ‘50 (e guarda caso qualsiasi film Disney di quel periodo ha un brano totalizzante e sognante, da A Dream is a Wish Your Heart Makes di Cenerentola nel 1950 a Once Upon a Dream de La bella Addormentata nel Bosco nel 1959). Cominciamo anche ad avere brani più smaliziati come He’s a Tramp in Lilli e Il vagabondo (1955) o l’iconica Crudelia de Mon, per arrivare poi a una dimensione totalmente scanzonata negli anni 60-70. Ma finora, eccetto Disney, nessuno ha provato seriamente a sperimentare con i due generi nel lungometraggio. E quando lo Studio decide di metterlo da parte per un po’, tutto tace. Tranne Ralph Bakshi, che ripercorre la storia della musica americana in American Pop (1981).

Disney risorge, prima nell’88 con un tiepido tentativo di musical urbano con Oliver & Co. (e le musiche di Billy Joel sono quasi sprecate per una storia che più derivativa non si può e un’animazione per l’ultima volta a risparmio) e poi finalmente con La Sirenetta (1989), rivisitiamo il canone di perfezione che sarà poi replicato ne La Bella e La Bestia (1991), Aladdin (1992) e Il Re Leone (1994): introduzione con una Happy Village song (oppure con qualche pezzo più solenne come Circle of Life), una I Want song in cui il protagonista urla i suoi sogni al pubblico, Villain song strepitosa in cui si fa la conoscenza del cattivo, una Sidekick song in cui arrivano le spalle comiche (quasi sempre il pezzo migliore del film) e la Love song tra i due innamorati con dominante rosa. Successo assicurato, soprattutto se dietro le musiche c’è un genio come Alan Menken, che porta il reggae nei mari del Nord e lo yodel nel Far West, o addirittura trasforma l’Arabia e l’Antica Grecia in moderne Las Vegas. Alcune volte si strizza di più l’occhio al pubblico come in Hercules (1997) o Mulan (1998), altre volte abbiamo momenti più drammatici come in Pocahontas (1995) e ne Il Gobbo di Notre Dame (1996), o lasciamo spazio a grandi interpretazioni autoriali (Phil Collins in Tarzan e Koda, Fratello Orso, Danny Elfman in Nightmare Before Christmas, Randy Newman nei film Pixar ma anche Elton John che prese il timone del pentagramma ne Il Re leone). 

Alcuni studi rivali hanno provato a replicare questo schema con risultati alterni. Dreamworks con Il Principe d’Egitto (1998) tocca vette di dramma e solennità che la Disney ha solo sfiorato (e che chiunque altro si guarderà bene dall’osare), L’Incantesimo del Lago (1994) scimmiotta il modello fiaba malamente, Anastasia (1997) sembra quasi un gemello malvagio delle Principesse Disney (ma quanto è bella la Villain song) e film come Quest for Camelot (1998) e Cats Don’t Dance (1997) sono ibridi affascinanti ma confusi.

Ma ancora una volta il musical animato entra in crisi. Le Follie dell’Imperatore (2000) cambia in corsa la sua natura, da musical epico con firma Sting ne esce una slapstick comedy spassosissima, ma i pochi pezzi sopravvissuti non sono certo memorabili (ndr: recuperate il brano perduto di Yzma, Snuff Out the Light). Film di Barbie a parte, nessuno punta più sul musical animato nei primi anni 2000, gli studios preferiscono fare uso di compilation di pezzi pop di collaudata fama, che forse si sposano meglio con i toni postmoderni dei film. E quando qualcuno prova a fare un musical puro, come nel caso de La Bottega dei Suicidi (2012), il risultato rasenta l’indecenza.

Disney alla fine del decennio ci riprova con il jazz (La Principessa e il Ranocchio) e il soft Rock (Rapunzel), per poi sbancare le classifiche nel 2013 con Frozen e nel 2016 con Moana. La formula vince sempre, accompagnata da molte strizzate d’occhio al pubblico. Ma non è l’unica.

Negli ultimi anni Illumination ha trovato un gradevole ibrido tra pop e musical con Sing (2016), Dreamworks risponde con Trolls (2016), la saga dell’Era Glaciale nel suo quarto film diventa un musical ma nessuno sa perché, abbiamo assistito a un derby messicano tra Coco (2017) e Il Libro della Vita (2014), fino ad arrivare al 2021, in cui Encanto ha portato il musical animato verso una nuova frontiera, quella dei video virali su qualsiasi social possibile. E il futuro è tutto da scoprire.

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Nicolò Cretaro, Redattore