Per moltissimo tempo, il musical è stato una delle punte di diamante di quel sistema definibile “industriale” che era il cinema classico (se non sapete cosa si intende con l’espressione, vi rimandiamo all’articolo apposito qui). Si trattava infatti di uno dei generi che meglio esprimeva la grandeur richiesta dalle rispettive case di produzione e al contempo una fucina di talenti e di maestranze impressionanti, capaci di adattarsi alle richieste delle majors per creare quelli che, ai tempi, erano veri e propri blockbuster senza però rinunciare al lato artistico.
Ma cosa è successo a questo genere così profittevole? Come e quando si è trasformato da dominatore del box office a veleno per gli incassi? In questo articolo vi porterò in un viaggio magico, seguendo il sentiero dorato per scoprire cosa fosse il musical classico e seguirne la parabola discendente.
DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI MUSICAL? IL TEATRO E GLI INIZI
“What the hell are musicals?”
“It appaers to be a play where the dialogue stops and the plot is conveyed through song”
(…)
“Wait, so an actor is saying his lines and out of nowhere he just starts singing?”
“Yes”
“Well that is the
(singing) Stupidiest thing that I have ever heard”
“Che cosa diavolo sono i musical?”
“Sembra sia uno spettacolo in cui il dialogo si interrompe e la trama viene trasmessa attraverso canzoni”
“Aspetta, quindi un attore sta dicendo le sue battute e all’improvviso comincia a cantare?”
“Sì”
“Beh, questa è la
(cantando) Cosa più stupida che ho mai sentito”
(A Musical, da Something Rotten)
Il dizionario Treccani recita, sotto la voce “musical”, «Spettacolo musicale – teatrale, cinematografico o televisivo – che prevede l’utilizzo di musica, dialoghi (parlati e cantati) e danze». Questa definizione ci pone davanti ad un primo elemento d’interesse, ovvero il fatto che il genere cinematografico abbia un suo precedente nel “fratello” teatrale, nato in America intorno a fine 19esimo secolo-inizio 20esimo come miscuglio di diverse forme di spettacolo precedenti. Tuttora, la strada simbolo del genere musical statunitense è Broadway (soprannominata “Great White Way”), nel cui distretto teatrale questi spettacoli venivano presentati già da metà diciannovesimo secolo.
Pur avendo dei precedenti (The Black Crook nel 1866, i lavori di Gilbert e Sullivan e Harrigan e Hart…), Show Boat (1927) è considerato il primo spettacolo in cui l’interesse è rivolto alla storia, a servizio della quale sono tutti gli altri elementi costituenti dell’opera. Questa rivoluzione viene portata a compimento dal duo Rodgers&Hammerstein col loro musical Oklahoma! (1943), per il quale i due vinsero un premio Pulitzer.
Il primo musical della storia del cinema (allora chiamato “operetta”) è stato anche il primo talkie in assoluto (ovvero il primo film sonoro). Si tratta di The Jazz Singer (Alan Crosland), presentato al pubblico nel 1927. Se in Don Juan (Alan Crosland), dell’anno precedente, il sistema su dischi Vitaphone è stato usato soltanto per dotare il film di una colonna sonora e di effetti sonori, in questo caso esso è servito a registrare le esibizioni di Al Jolson, il cantante\attore protagonista della vicenda.
Tuttavia, non sono queste a stupire maggiormente gli spettatori. Il momento più memorabile del film è certamente quello in cui sentiamo le prime parole della storia del cinema, una battuta improvvisata da Jolson che, nel passare da una canzone all’altra, dice “aspettate, aspettate, non avete ancora sentito nulla!”: una frase profetica. Successivamente, nel corso del film l’attore improvvisa un’altra scena di dialogo assieme all’attrice Eugenie Besserer, durante la performance della canzone Blue Skies.
Col musical, si apre dunque un nuovo capitolo della storia del cinema: quello del sonoro.
L’introduzione di questa tecnologia è una rivoluzione che scuote Hollywood e le sue fondamenta: per restare al passo coi tempi e non essere svantaggiate rispetto alle proprie avversarie, le varie case di produzione si scapicollano in una riconversione dei macchinari di ripresa, di quelli di proiezione per i cinema, nell’educazione dei propri attori ad uno stile recitativo consono al nuovo mezzo e, in caso, alla loro sostituzione (il musical Cantando sotto la pioggia, di cui abbiamo parlato qui, cattura perfettamente questo momento di transizione e le difficoltà tecniche riscontrate).
Canonicamente, la conversione al sonoro, almeno in America, viene datata 1929.
GLI ANNI D’ORO: THIS IS THE GREATEST SHOW
“Spectacular, spectacular,
No words in the vernacular
Can describe this great event
You’ll be dumb with wonderment”
“Spettacolare, spettacolare,
Nessuna parola nel dizionario
Può descrivere questo grande evento,
Sarai muto per la meraviglia”
(The Pitch, da Moulin Rouge!)
Tra anni ’30 e ’60, il musical cinematografico, fissati i propri elementi costitutivi, è uno dei generi più importanti all’interno dello studio system.
Ogni casa di produzione si specializza in un proprio “tipo” di musical, spesso anche in base alle star che ha sotto contratto.
Tra 1933 e 1939, la RKO produce nove film, che integrano “gli stereotipi del musical con quelli della commedia di ambientazione sofisticata” (Bertetto, P. (2012). Introduzione alla storia del cinema: Autori, film, Correnti. UTET Università, p. 108), con protagonista la coppia di ballerini Fred Astaire-Ginger Rogers, solitamente nei ruoli di innamorati (il più famoso è probabilmente Cappello a Cilindro, Mark Sandrich, 1935). I loro numeri di danza sono filmati in lunghe inquadrature, a volte veri e propri piani sequenza, in cui ogni elemento, dai costumi alle scenografie, contribuisce ad esaltare la coppia e la sua bravura. Raramente questi film includono grandi numeri con un largo ensemble: il duo Fred e Ginger è sufficiente a metter su uno spettacolo coi fiocchi.
Al contrario, il musical della Warner, complice la presenza allo studio del coreografo Busby Berkeley, si avvale di grandi coreografie di massa. Esempio di questo tipo di produzioni è 42esima strada (42nd Street, Lloyd Bacon, 1933), che tra l’altro “contribuisce a fissare la tradizione del musical metalinguistico” (Ibidem). Alla Warner è sotto contratto, fino a metà anni ’50, anche Doris Day, attrice la cui immagine pubblica era quella di forte puritanesimo, tanto che negli anni ’70 Grease (Randal Kleiser, 1978) la prenderà in giro durante la canzone Look at me, I’m Sandra Dee.
L’MGM sfrutta a piene mani il colore fornito dal sistema Technicolor, un’altra invenzione che si accompagna al sonoro. Questo viene usato “per la costruzione di universi fantastici e spesso onirici” (Ibidem). L’esempio più noto del musical MGM e del musical classico tout court è Il mago di Oz (The Wizard of Oz, Victor Fleming, 1939), in cui la palette di colori assolutamente antinaturalistici indica il passaggio di Dorothy dal Kansas al mondo magico di Oz, dalla realtà alla favola, creando un’atmosfera magica. Inoltre, si tratta di un segnale della qualità della produzione e della possibilità di dispiegare mezzi: durante gli anni ’30 e ’40 il colore è ancora una tecnologia che soltanto i più grandi film delle majors possono permettersi.
Ad inizio anni ’40 alla MGM si inserisce uno dei più importanti nomi dell’industria, in fatto di musical. Si tratta di Vincente Minnelli, regista, tra le altre cose, di Un americano a Parigi (An American in Paris, 1951), con protagonista una delle più note star della casa di produzione, Gene Kelly. Il film comprende il numero musicale più lungo della storia del genere: un balletto di 17 minuti sulle note di An american in Paris di George Gershwin, che chiude il film con una scena priva di dialoghi. Minnelli collabora molto anche con Judy Garland, iconica protagonista de Il mago di Oz e sua futura (prima) moglie.
Oggi lo ricordiamo soprattutto per il lavoro svolto sul colore, sull’aspetto estetico dei suoi film, tanto da essere “accusato” da alcuni contemporanei di essere più interessato allo stile che alla sostanza dei propri lavori.
L’obbiettivo principale del musical nell’era classica, comunque, sembra essere quello di offrire uno spettacolo indimenticabile al proprio pubblico, un’esperienza di visione appagante e totalizzante, sia essa realizzata attraverso le travolgenti ed infinite coreografie di Astaire-Gingers, i numeri di massa di Berkeley, o il connubio tra sonoro e colore. Le produzioni sono ad alto budget, presentate come eventi imperdibili, spesso rivolti ad un pubblico d’elité. Si tratta infatti di uno dei generi più proposti all’interno del roadshow, una forma di distribuzione anticipata delle pellicole considerate future hit, che prevedeva prezzi più alti in considerazione della propria natura esclusiva, dei costi investiti nei film proiettati e della qualità dell’esperienza di proiezione.
Le trame tendono ad essere ripetitive (fenomeno trasversale ai generi, all’interno dello studio system) e a concentrarsi soprattutto su due tipi di narrazioni: metanarrative, coinvolgenti persone che lavorano nel mondo dello spettacolo (es È nata una star, George Cukor, 1954), o dedicate a tutt’altro, viranti principalmente sul romantico e\o sul comico. Talvolta questo secondo tipo di film è ambientato in luoghi altri rispetto alla grande città, idilli di campagna (Oklahoma!, Fred Zinnermann, 1955) o mondi di fantasia. I primi, invece, spesso e volentieri raffigurano uno scintillante mondo dello spettacolo e la città come luogo di occasioni.
Un altro elemento comune a queste produzioni è che i numeri musicali risultano interruzioni all’interno della narrazione: non servono a far progredire la trama, ma piuttosto fungono da divertissement o come occasione per conoscere le motivazioni e le emozioni dei protagonisti. Sono anch’essi parte dell’esperienza spettacolare, spesso ripresi attraverso lunghe inquadrature con pochi stacchi che permettano di apprezzare la bravura degli interpreti. Non per niente, questi vengono solitamente scelti all’interno della “scuderia” delle case di produzione, ballerini e cantanti sovente natii del teatro o del varietà ed impiegati principalmente per questo genere di film. Oltre alle persone già citate, vale la pena segnalare Cyd Charisse, ballerina protagonista di alcuni numeri indimenticabili come partner di grandi nomi quali Fred Astaire e Gene Kelly, e Donald O’ Connor, specializzato in coreografie acrobatiche ed energetiche.
Nonostante ciò va citata la presenza di alcuni rari e per questo interessanti casi, specialmente negli anni ’50, di stunt casting, ovvero la pratica di assumere per delle parti degli attori famosi ma non legati al mondo del musical per attirare il pubblico al cinema. Alcuni esempi di questa pratica comprendono Deborah Kerr in Il re ed io (The King and I, Walter Lang, 1956) e Marlon Brando in Bulli e pupe (Guys and dolls, Joseph L. Mankiewicz, 1955). Ugualmente interessanti, sempre negli anni ’50, sono le occasioni in cui il musical sembra essere concepito come mezzo di lancio di giovani promesse delle majors. È il caso ad esempio di Debbie Reynolds (Cantando sotto la pioggia), Marilyn Monroe (Gli uomini preferiscono le bionde) e Ava Gardner (Show Boat).
Già dagli anni ’30 è segnalabile la presenza di film tratti da musical teatrali (o da forme proto-musicali di spettacolo): il primo adattamento di Showboat risale addirittura al 1929. I compositori più “saccheggiati” sono i grandi degli anni ’30 e ’40: il duo Rodgers&Hammerstein (South Pacific, Carousel), Cole Porter (Kiss me Kate, Anything Goes), Irving Berlin (il quale si occuperà anche di comporre colonne sonore direttamente per le pellicole), Ira e George Gershwin.
All’incirca fino alla fine degli anni ’50, il genere musical ha un enorme successo di critica ma, anche e soprattutto, di pubblico, risultando estremamente profittevole e giustificando, il più delle volte, le impressionanti somme investite con ricavi ugualmente impressionanti, oltre che riconoscimenti. Tuttavia, con l’inizio degli anni ’60, qualcosa comincia a cambiare.
SOMETHING’S COMING: IL DECLINO DEL MUSICAL AD ALTO BUDGET
Il decennio si apre con un film che sembra essere paradigmatico del mutamento che segnerà il futuro del cinema in generale e del musical in particolare.
West Side Story (Jerome Robbins e Robert Wise, 1961) è tratto da uno spettacolo teatrale di pochi anni prima, con le musiche di un maestro della “vecchia guardia”, Leonard Bernstein, e i testi di un giovane 25enne al suo primo lavoro, Stephen Sondheim, che nei decenni a venire rivoluzionerà il genere musical a teatro. Una versione di Romeo e Giulietta ambientata a New York sullo sfondo di una guerra tra bande, West Side Story parla di argomenti attuali, come la delinquenza tra i giovani e il razzismo. Lo fa con un linguaggio che Sondheim aveva voluto aggressivo e violento (l’intento era inserire nella colonna sonora il primo “vaffanc*lo” della storia del genere, intento frustrato dalla necessità di vendere dischi), che pur risultando oggi quasi ridicolo è lo specchio dei suoi protagonisti e della loro giovane età. Cosa ancora più sorprendente: è un musical che non si chiude con un lieto fine, ma che anzi frustra la felicità dei due giovani amanti, che in qualsiasi altra opera sarebbero stati premiati per il loro amore puro.
Il film vede tra i suoi protagonisti diversi membri del cast teatrale, ma i due protagonisti sono interpretati da inesperti del genere: Richard Beymer (che oggi ricordiamo soprattutto per il ruolo in Twin Peaks) e Natalie Wood, volto della ribellione giovanile in classici come Splendore nell’erba e Gioventù bruciata. Entrambi, per ovviare alle loro mancanze, sono doppiati nelle parti cantate.
Come nello spettacolo teatrale, il film non lesina di discutere questioni spinose con, tuttavia, un occhio di riguardo ai giovani protagonisti e una condanna velata dell’establishment. In aggiunta, vengono effettuate riprese in luoghi reali, cosa quasi inedita per l’epoca. Altro elemento interessante del film è che, nonostante i personaggi portoricani siano interpretati in maniera abbastanza stereotipata, da attori bianchi in blackface e con accento esagerato, l’unica attrice latinoamericana del cast, Rita Moreno, vince l’Oscar per la sua interpretazione, il primo caso nella storia dell’Academy ed un enorme punto d’orgoglio per la comunità latinoamericana al tempo.
Coi suoi dieci Oscar vinti, che lo rendono il musical più premiato della storia del cinema, West Side Story è un segnale difficilmente ignorabile: il cinema sta cambiando, il gusto del pubblico sta cambiando, il musical teatrale sta cambiando, aprendo le porte a nuove leve e superando il suo modello glamour. Come se non bastasse, l’introduzione della televisione negli anni ’50 ha portato ad un diminuito interesse nei confronti del mezzo cinema e del modello roadshow.
L’industria cinematografica, però, non coglie l’antifona, e continua a produrre film che mantengono la stessa impostazione dei precedenti e che risultano, nel nuovo clima di sperimentazione che si sta creando dentro e fuori da Hollywood, alienanti per un pubblico sempre più giovane e affamato di novità.
Alla situazione già drammatica si aggiungono fatti spiacevoli dietro le quinte. Per il film My fair lady (1964, George Cukor) viene assunta nel ruolo della protagonista, per motivi di marketing, Audrey Hepburn, e non l’attrice che ha originato, con critiche estremamente positive, il ruolo a teatro: una brillante nuova star di nome Julie Andrews. La situazione causa l’indignazione di pubblico e stampa, che aumenta quando diventa chiaro che nel film Hepburn è stata doppiata nelle parti cantate, a discapito dei suoi stessi desideri. A seguito di questo film il pubblico riuscirà finalmente a vedere per la prima volta il viso della cantante che era in un certo senso il “segreto di Pulcinella” del mondo hollywoodiano: il soprano Marni Dixon, che ha dato voce a Natalie Woods in West Side Story, Deborah Kerr in Il re ed io ed altre star. Altri si sono avvalsi, nel corso degli anni, dello stesso trucchetto, senza che però i ghost singer (oltre a Nixon possiamo citare Anita Ellis, Bill Lee, Annette Warren…) venissero compensati o riconosciuti propriamente.
Lo stesso anno, Andrews ottiene la sua “vendetta”: viene assunta da Walt Disney per il suo blockbuster Mary Poppins, il debutto cinematografico che le vale un Oscar alla migliore attrice. L’anno successivo, è la volta di Tutti insieme appassionatamente (The Sound of Music, 1965, Robert Weise), un musical che ha un incredibile successo al botteghino (ad oggi è al sesto posto tra i film che hanno guadagnato maggiormente nella storia del cinema con l’inflazione aggiustata). Tuttavia, le critiche raccontano una storia diversa: il revisionismo storico della vicenda viene criticato, così come il tono eccessivamente zuccheroso. Nella corsa agli Oscar, Andrews viene “sconfitta” da Julie Christie in Darling (John Schlesinger, 1965), storia di una modella dalla dubbia morale e sessualmente attiva. Come ben riportato in Il cinema americano classico di Alonge e Carluccio, “il genere è ormai in pieno declino, così come il modello hollywoodiano nel suo complesso” (Alonge, A. G., & Carluccio, G. (2006). Il Cinema Americano Classico. Laterza, p. 203).
Cercando di capitalizzare sul successo di My Fair Lady, Mary Poppins e Tutti insieme, negli anni successivi escono alcuni musical che, però, vengono mal accolti sia dal pubblico che dalla critica, oltre a portare scarsi risultati al botteghino (vale la pena citare Camelot del 1967, luogo di incontro di Vanessa Redgrave e Franco Nero, e Il favoloso dottor Dolittle con Rex Harrison). L’ultimo chiodo nella bara viene solitamente considerato Hello, Dolly! (Gene Kelly, 1969), con protagonista Barbra Streisand, che solo l’anno prima ha vinto un Oscar alla migliore attrice per un altro musical, Funny Girl, da lei interpretato anche a Broadway. Hello, Dolly! risulta un fallimento finanziario, guadagnando 26 milioni a fronte di un investimento di 25. Lo stesso anno esce al cinema Easy Rider (Dennis Hopper, 1969), uno dei film che diventerà paradigmatico del cambiamento in atto al cinema ed evidenza concreta della vecchiezza dei modelli e delle storie a cui l’opera di Kelly è ancorato.
REQUIEM DEL MUSICAL CLASSICO
Per 30 anni il genere musical è riuscito a dominare il box office e a catturare i cuori degli spettatori, tra un numero di tip tap e un duetto d’amore. Tuttavia, l’allure sfavillante dei mondi fantastici proposti da questi film è andato scemando per fattori al di fuori del controllo dell’industria: il cambiamento dei costumi, che ha portato ad un mutamento nell’età demografica degli spettatori e ad un’evoluzione del gusto del pubblico. Potremmo dunque affermare che la parabola del musical classico sia una delle dimostrazioni più lampanti di come anche un fenomeno così apparentemente saldo possa capitolare a causa dell’incapacità delle case di produzione di stare al passo coi tempi.
Tuttavia, la storia del genere musical non si chiude con gli anni ’60: a chiudersi, piuttosto, è la stagione del mega musical cinematografico, pomposo, costoso, portatrice di una (forse eccessivamente) ottimista e bacchettona visione del mondo che mal si sposa con le nuove ragioni dei giovani contestatori sessantottini. Una stagione che ci ha regalato sfarzosi numeri musicali, mondi fantastici e scintillanti che raramente il cinema successivo è riuscito a restituirci e che ha dato spazio per brillare a grandi cantanti e ballerini oltre che a registi e maestri della propria arte capaci di dare vita con la macchina da presa a spettacoli e sogni eccezionali. Spettacoli tanto influenti nell’immaginario collettivo che, tuttora, il genere nella sua totalità viene spesso ricollegato a questi primi trent’anni di cinema
Il nostro cammino lungo la “Great White Way” è appena cominciato, ma non possiamo che dire addio, con nostalgia, al sentiero dorato.
“It’s a musical, a musical,
And nothing’s as amazing as a musical,
With song and dance, and sweet romance,
And happy endings happening by happenstance,
Bright lights, stage frights, and a dazzling chorus”
“è un musical, un musical,
E nulla è fantastico quanto un musical,
Con canzoni e balletti, e una dolce storia d’amore,
E un lieto fine che si realizza per caso,
Luci brillanti, paura del palcoscenico, e uno smagliante coro”
(A Musical, da Something Rotten)
Leggi la seconda parte qui.
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