“Hai raggiunto il perfetto equilibrio. L’uomo e l’artista sono ormai una cosa sola: hanno toccato il fondo insieme”

(Morte a Venezia, Luchino Visconti)

Decadenza.

All’interno del corpus di opere di Luchino Visconti, questo tema ricorre spesso. Dal lamento funebre del principe di Salina per l’aristocrazia (“Noi fummo i gattopardi…”), alla rovina tragica e assieme ridicola dell’imperatore Ludwig di Baviera, passando attraverso le maestose macerie di storie d’amore spezzate, concluse o mai cominciate, la finitezza della natura umana e di tutte le sue faccende sembra essere sempre presente nella mente del regista italiano.

Ma, nella sua opera, probabilmente mai tale tema viene affrontato in maniera tanto programmatica, a partire dallo stesso titolo, come in Morte a Venezia.

L’arte, “punizione di Dio”

Tratto dall’omonimo racconto di Thomas Mann, come da titolo il film è ambientato a Venezia. Il protagonista, Gustav von Aschenbach (Dirk Bogarde), è un artista ammirato che ha però perso l’ispirazione. Si reca nella Serenissima per trascorrere un soggiorno che, tuttavia, si rivelerà fatale. Infatti, qui Aschenbach incontrerà un giovane adolescente polacco, Tadzio (Björn Andrésen), in vacanza con la famiglia. Il protagonista diventerà ossessionato dal ragazzo e dalla sua bellezza, e deciderà di proseguire ad oltranza la propria permanenza nella città solo per ammirarlo da lontano, anche quando diventerà chiaro che Venezia è preda di un’epidemia di colera.

Nell’adattare l’opera di Mann, una delle grandi sfide affrontate dal regista e dallo sceneggiatore Nicola Badalucco è stata certamente traslare su schermo una vicenda che è estremamente intima e metaletteraria: Aschenbach è, infatti, uno scrittore, e buona parte del racconto è dedicata alle sue riflessioni, anche attorno al proprio mestiere. Per dare forma a tali elucubrazioni, nel film il personaggio è stato trasformato in un musicista, evidentemente ispirato alla figura di Gustav Mahler, di cui nel corso della pellicola ricorrono diversi brani, ed uno in particolare: il quarto movimento della sua quinta sinfonia, un Adagietto. Sostituendo alla dimensione della scrittura quella della musica, si riesce a fornire maggiore concretezza all’arte del protagonista nel passaggio dalla pagina allo schermo.

La natura particolarmente interiore dell’opera di Mann torna anche nel film: le scene di dialogo sono molto rare, rendendo ogni scambio di parole prezioso e memorabile. Particolarmente importanti sono soprattutto le discussioni, non presenti nel libro, tra Aschenbach e un suo amico, Alfred, che si confrontano attorno a questioni topiche che lo stesso protagonista affronta nella controparte cartacea.

Uno dei temi fondamentali sollevati nel film è quello dell’arte e dell’immagine di chi crea. Se da una parte Aschenbach professa la necessità dell’artista di essere modello esemplare, Alfred celebra l’ambiguità dell’arte (e in particolare della musica, da lui definita “ambiguità elevata a sistema”) e dell’artista, affermando che non può esserci arte senza che chi la produce sia dotato di una certa qualità “demoniaca”. Ugualmente, se Aschenbach da una parte si dice convinto che l’arte sia sostanzialmente tecnica, una scienza esatta che necessita di studio, al contrario Alfred la considera inscindibile dalla vita e dall’esperienza diretta.

Oggetto dell’arte, secondo i due, sarebbe il raggiungimento della bellezza. Tuttavia, anche in questo caso le loro visioni sono discordanti: da una parte Ashenbach cita, nuovamente, il dominio dei sensi e il raggiungimento di uno stato equilibrato come fondamentali per produrre bellezza; dall’altra, secondo Alfred la bellezza non è creata ma presente nella realtà, e un’artista non può, per raggiungerla, non fare appello ai suoi istinti più bassi.

“Quant’è bella giovinezza…”

La fascinazione del protagonista nei confronti del giovane polacco, che va intensificandosi nel corso del film tanto da spingerlo a seguire lui e la sua famiglia attraverso Venezia, ha certamente a che fare con un desiderio erotico, esplicitato dallo stesso Aschenbach più chiaramente nel libro. Tale elemento, assieme alle testimonianze dell’attore allora 15enne Björn Andrésen su come il culto dell’immagine di cui divenne oggetto dopo l’uscita del film rovinò la sua vita (la sua esperienza è raccontata più nel dettaglio nel documentario Il ragazzo più bello del mondo), potrebbero risultare disturbanti per diversi spettatori odierni. Tuttavia, pur essendo doveroso citare e tener conto, nel discutere Morte a Venezia, delle conseguenze negative della produzione sulla vita di un attore bambino, è anche necessario far emergere quale significato più profondo potrebbe avere l’ossessione del protagonista per l’adolescente nell’ambito della teorizzazione portata avanti dal film.

A sinistra: Tadzio in Morte a Venezia. A destra: Gilbert Cocteau, protagonista del manga Il poema del vento e degli alberi. Dopo la fama ottenuta col film, Andrésen si recò in Giappone, dove fece da modello per mangaka quali Keiko Takemiya e Riyoko Ikeda, divenendo il prototipo di diversi bishōnen -letteralmente “bel ragazzo”-, “tipo” androgino presente soprattutto in manga a tematica omosessuale

Il desiderio di Aschenbach si manifesta esclusivamente, nel corso del film, attraverso una serie di ambigui scambi di sguardi. L’ossessione dell’artista assume la dimensione di una forma di venerazione religiosa, nella quale Tadzio svolge il ruolo di icona del proprio culto, un culto che, più che attorno al ragazzo stesso, verte attorno a ciò che egli rappresenta: la bellezza assoluta, che in quanto artista Aschenbach aspira a raggiungere, e la giovinezza. Così le pose plastiche assunte da Andrésen nel corso del film (Lawrence J. Quirk ebbe a dire in The Great Romantic Films che certe sue immagini «potevano essere prese dalla pellicola e appese nelle sale del Louvre o del Vaticano») trovano giustificazione. Tadzio non è mai personaggio a tutto tondo, ma solo rappresentazione, simbolo, oggetto di contemplazione e adorazione, al pari di ciò che era stato per l’imperatore Adriano il giovane Antinoo, la cui immagine venne riprodotta in mille forme a seguito della sua prematura morte.

Il collegamento con la classicità greco-romana, d’altronde, è innegabile: il modello di bellezza incarnato da Tadzio e venerato da Aschenbach è quello efebico di certe statue antiche, e la passione del protagonista è di tipo pederastico. La pederastia, ovvero il rapporto anche sessuale tra un adolescente ed un adulto, era infatti normalizzata ed incoraggiata soprattutto all’interno della cultura greca, nella quale aveva principalmente valore iniziatico ed educativo.

Busto raffigurante Antinoo, amante dell’imperatore romano Adriano

Altri grandi modelli sono quelli del Decadentismo e dell’Estetismo, movimenti artistico-letterari che assumevano come fine della vita proprio la ricerca del piacere e del Bello. Questa, tuttavia, conduce al degrado: la ricerca amorale da parte dell’artista di nuove, eccitanti esperienze lo porta spesso e volentieri all’annientamento proprio e\o di chi gli sta attorno (così è ad esempio per il protagonista de Il ritratto di Dorian Gray). 

Tale è il percorso di Aschenbach nel corso di Morte a Venezia: l’ossessiva osservazione di Tadzio si accompagna ad un evidente declino delle sue facoltà psico-fisiche, che culmina nella morte preannunciata nel titolo, avvenuta sul Lido mentre è in contemplazione del ragazzo.

Il punto più basso del deterioramento del musicista è probabilmente quello in cui si fa imbellettare da un barbiere, nel tentativo di sembrare più giovane: un travestimento grottesco, anticipato dall’apparizione precedente di due personaggi con cui Aschenbach interagisce, manifestazione della decadenza tanto della sua arte quanto della sua anima.

Tadzio è, infatti, anche il “paìs” per eccellenza, il simbolo della gioventù: la sua bellezza è tale solo in virtù della giovane età, che è destinato a perpetuare in eterno (nel libro, Aschenbach immagina che non vivrà a lungo). Pertanto, è inarrivabile per il musicista, ormai vecchio, e i suoi tentativi di avvicinarsi non possono che ritorcerglisi contro.

“Non c’è al mondo impurità così impura come la vecchiaia”.

(Morte a Venezia, Luchino Visconti)

Serenissima

In Morte a Venezia, tutto è finito prima di cominciare: l’arte, sino ad allora oggetto della vita del protagonista, lo ha abbandonato; la bellezza, che pure esiste, non può essere replicata ma neppure raggiunta; la giovinezza, che dovrebbe essere uno stato idilliaco della vita, è passata per Aschenbach ed è tanto breve quanto fragile (oltre al presagio della morte di Tadzio, nel film scopriamo che la figlia del protagonista è morta da bambina). 

Anche la Venezia di Visconti, lungi dall’essere la bella meta turistica vendutaci di solito, è solo sporadicamente un luogo attrattivo: funestata dallo scirocco, i propri monumenti più famosi ingolfati nel grigiore e nella nebbia, popolata da figure bizzarre ed avide, ed infine svuotata e devastata dal colera. D’altronde, quale luogo migliore di Venezia, la meravigliosa città che affonda, per raccontare la decadenza di un artista? Quale albergo migliore del lussuoso Hotel des Bains, fantasma della sua gloria passata già ai tempi delle riprese?

Morte a Venezia è la narrazione, disturbata eppure straordinariamente limpida, di molteplici morti: il decesso di Aschenbach non è che l’ultima, estrema conseguenza della presa di coscienza del fatto che, prima di lui, se ne sono andati arte, e bellezza, e giovinezza. Neppure il richiamo del giovane Tadzio, che col proprio ultimo gesto sembra indicargli l’orizzonte, l’avvenire, è sufficiente in quest’occasione: Aschenbach ricade morto sulla sua sedia, incapace, questa volta, di seguirlo.

Questo articolo è stato scritto da:

Silvia Strambi, Redattrice