Sam Rockwell, una base lunare, una sceneggiatura ben scritta. Questo è ciò che basta a Duncan Jones per firmare, nel 2009, la sua pellicola d’esordio e per creare uno dei film di fantascienza più interessanti degli anni 2000: Moon.
Nonostante i primi dieci anni del XXI secolo siano stati ricchi di opere estremamente convincenti in ambito Sci-Fi, su tutte Avatar di Cameron (2009), Sunshine di Danny Boyle (2007) e I Figli degli Uomini di Cuarón (2006) – qui un approfondimento su quest’ultimo – il debutto alla regia del figlio del compianto David Bowie trova il proprio posto al tavolo dei grandi grazie a una pellicola in cui sono le idee a prevalere sul budget (ridottissimo: 5 milioni di dollari), un cinema di concetto che non si perde in mirabolanti effetti speciali, ma che va dritto al punto.
Moon, infatti, rappresenta l’essenza stessa della Fantascienza, ovvero l’interrogarsi su questioni esistenziali come la natura umana, l’etica e la morale, oppure l’analizzare, con uno sguardo spesso molto severo, la società contemporanea e tutte le sue problematiche. Duncan Jones riesce con questo film, come si vedrà, a centrare sapientemente entrambi gli obiettivi.
Andando con ordine, però, Moon mette in scena la storia di Sam Bell (Sam Rockwell in un’interpretazione eccezionale), un uomo che lavora per una multinazionale mineraria sulla Luna, dove estrae materiali necessari alla produzione di energia elettrica sulla Terra. Arrivato alla fine del contratto triennale che lo obbliga sulla base lunare in completa solitudine, però, strani eventi iniziano a turbare le ultime settimane di lavoro di Sam, le cui conseguenze avranno effetti devastanti sulla vita e sull’esistenza stessa del protagonista.
N.B. Questo articolo conterrà spoiler sul film in questione, che resta disponibile per il noleggio online su tutte le piattaforme dedicate.
LA RUOTA DEL CAPITALISMO: TRA OPPRESSIONE E IPOCRISIA
Moon è una pellicola decisamente profonda e stratificata, che può essere approcciata da diversi punti di vista e che offre spunti di riflessione di varia natura. Nonostante ciò, va riconosciuta la centralità del messaggio socio-politico che è, chiaramente, il più evidente e che rende questo film un’interessantissima opera di denuncia, portata avanti in maniera tagliente, acuta e che non cade mai nel didascalico, nei confronti della società contemporanea,
Il concetto chiave attorno al quale ruota tutto il discorso di Duncan Jones è la spersonalizzazione della forza lavoro, lo sfruttamento sistematico e organizzato di masse pressoché infinite di individui al fine di garantire un certo status di privilegio e benessere a tutta una fetta di popolazione privilegiata. Leggendo il film in questo senso i cloni di Sam Bell, che vengono risvegliati con l’unico scopo di lavorare, produrre e successivamente subire l’eliminazione, sono una triste metafora della moltitudine di persone che lavorano, oggi, come macchine in un sistema capitalista che li opprime in maniera invisibile, costrette a una nuova forma di schiavitù sociale fatta di sfruttamento, debiti e precarietà, ma mascherata da progresso, benessere e libertà.
Proprio come il personaggio di Sam Rockwell vive costantemente nell’illusione costruita a tavolino di un futuro ritorno sulla Terra, allo stesso modo il capitalismo contemporaneo vende quotidianamente l’illusione di un possibile avanzamento sociale, di un’agiatezza economica per tutti, che si rivela essere semplicemente una facciata, una botola nascosta che copre la stanza segreta della base lunare dove è custodita segretamente la verità: si è tutti cloni, si è tutti programmati per produrre e per consumare, per avere la schiena piegata sotto il peso di chi sta sopra e contemporaneamente gravare sulle spalle di chi sta sotto, in un mondo in cui l’uomo comune è sia oppresso che oppressore, in un gioco che avvantaggia solamente chi sta in cima alla piramide umana e può stare comodamente seduto con la testa alta.
Questa terribile necessità di avere una maggioranza sfruttata per garantire il benessere degli altri è perfettamente rappresentata nel film, in quanto la stazione-prigione in cui lavora Sam Bell ha il compito di fornire energia pulita e pressoché illimitata alla Terra. In questo parallelismo si cela la grande contraddizione della contemporaneità: è moralmente accettabile, in una società civile come quella odierna, che milioni di persone vivano in condizioni disumane affinché la restante parte del mondo possa condurre una vita normale? E’ risaputo che, ad esempio, la stragrande maggioranza dei vestiti in commercio sia prodotta in paesi come il Bangladesh o il Vietnam in contesti non propriamente cristallini, ma sarebbe possibile per l’occidentale medio rinunciare a cose che ritiene così naturali e scontate – come un capo d’abbigliamento a basso costo – per garantire una più equa ridistribuzione della ricchezza? O è forse giusto che esistano dei cloni di Sam Bell che trascorrono l’intera vita sulla Luna producendo energia elettrica sognando invano di tornare un giorno da famiglie che non esistono, affinché ogni persona sulla Terra possa accendere la luce in casa propria?
Ai posteri l’ardua sentenza, sperando possano giudicare senza ipocrisia.
IL CONCETTO D’UMANITA’: TRA IDENTITA’ E MEMORIA
Un secondo elemento, molto più esistenziale e filosofico rispetto al precedente, che emerge dalla visione di Moon è la riflessione intorno al concetto di umanità che è, sicuramente, un macro-tema distintivo che la fantascienza tratta da sempre e che fa parte della tradizione di genere ormai da decenni. Duncan Jones si inserisce in questo filone seguendo le orme di quel capolavoro che è Blade Runner (1982), utilizzando la metafora della creatura artificiale che, nel prendere coscienza della propria identità, mette in campo alcune domande e riflessioni su cosa significhi effettivamente essere umani.
Sam Bell, infatti, nel corso del film viene a conoscenza della sua natura replicata, scoprendo – suo malgrado – di essere semplicemente uno tra tantissimi cloni e che tutti i ricordi della Terra, che credeva così veri e che costituivano il suo appiglio emotivo, la motivazione profonda che gli permetteva di sopportare la vita alienante della base lunare, sono in realtà memorie artificiali impiantante. La caduta di ogni certezza del protagonista in seguito a questo evento apre a riflessioni molto interessanti sul valore del ricordo: il personaggio di Sam Rockwell, infatti, ha vissuto tre anni provando nostalgia per una casa che non esiste; desiderio per una donna in realtà ormai morta e amore per una figlia neonata che ormai è più che adolescente. Se è vero, dunque, che l’oggetto dei sentimenti di Sam Bell è fittizio, lo stesso non si può dire del sentimento stesso che è reale, autentico e profondo, nonostante sia esperienza di un non-umano. E’ qui che, allora, nasce spontaneo il dilemma e viene da chiedersi cosa sia a rendere “vera” la memoria: l’aderenza con i fatti accaduti o l’emozione che chi ricorda prova ripensando a quel momento? Quante volte capita di avere un’immagine non veritiera di eventi passati, soprattutto legati all’infanzia, ma di essere perfettamente certi dei sentimenti provati in quel frangente e del segno indelebile che hanno lasciato? In altre parole ciò che rende la memoria – e quindi, per associazione, anche l’essere – umana non è tanto cosa si ricorda, bensì, più che altro, come lo si ricorda.
Il discorso di Duncan Jones, qui, si allarga ulteriormente ponendo questo concetto come base per definire cosa sia l’identità di un soggetto: il momento in cui Sam Bell scopre di essere semplicemente una replica artificiale corrisponde con la caduta di tutta una serie di certezze che andavano a comporre, come un puzzle, l’immagine che il protagonista ha di sé stesso. Egli infatti, ai suoi stessi occhi, è un padre amorevole, un marito devoto, un uomo che lavora sodo e si sacrifica per la propria famiglia, queste sono le fondamenta sulle quali ha basato la propria esistenza e nel momento in cui vengono improvvisamente meno, ecco che Sam non è più in grado di riconoscersi, non riuscendo più a vedere la propria identità in ciò che è rimasto di lui.
Qui torna nuovamente il conflitto tra percezione e verità, vero punto cardine di tutta la riflessione esistenziale del regista, in quanto il protagonista comprende, nel momento più oscuro della sua disperazione, che l’identità che gli è stata tolta è un’illusione proprio come i ricordi che gli sono stati impiantati artificialmente, ciò che veramente lo rende unico e umano è il percorso emotivo che ha compiuto nella sua vita, come ha costruito un sistema complesso di sentimenti legato a questa memoria, che anche se risulta essere replicata, lo ha fatto crescere e cambiare, lo ha fatto soffrire e gioire, gli ha dato un motivo per vivere e una speranza per il futuro, rendendolo di fatto non più una copia di una persona, ma una Persona egli stesso, perché sicuramente se il Sam Bell-clone avesse avuto la possibilità di incontrare la neonata ormai cresciuta presente nei suoi finti sogni, si sarebbe emozionato proprio come un padre che riesce a vedere per la primissima volta la propria figlia e in quel momento chi sarebbe stato in grado di distinguere il clone dall’umano, l’originale dalla copia?
Chi sarebbe in grado di dire “questo non è un uomo?”, probabilmente nessuno.
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