Ho fatto il vigile del fuoco. Ho visto tante scene di orrore, macchine contorte con dentro persone alcune ancora vive. Le aprivamo con le motoseghe o delle tronchesi enormi. Questo forse mi ha dato un distacco, perché ormai per noi […] vedere a volte proprio la carne, con i vetri infilati nel corpo, con le lamiere, alcuni morti mozzati: dopo un po’ […] non mi colpiva più.

Michele Soavi

Classe 1957, Michele Soavi nasce in una famiglia di artisti e scrittori da cui fin da piccolo riceve quasi per osmosi la passione per l’arte e la pittura. Dopo un’adolescenza scolastica difficile, Soavi comincia subito a lavorare come vigile del fuoco maturando un’esperienza nel rapporto con il dolore e la morte che risulterà centrale per il suo processo di crescita come regista. Negli anni ’70 infatti comincia a lavorare sui set dei b-movie all’italiana collaborando con nomi quali Lucio Fulci (per cui interpreta Tommy Fisher in Paura nella città dei morti viventi), Lamberto Bava (è il Man in Black di Demoni), Dario Argento (per cui reciterà in Tenebre, Phenomena ed Opera) e Joe D’Amato, ma è durante il periodo di crisi che il genere affronta negli anni ’80 che Soavi riesce a compiere il salto da attore ad aiuto regista prima ed a regista poi.

Proprio verso la fine degli anni ’80, con l’uscita nelle sale del suo primo lungometraggio Deliria, i fan e la critica trovano in Michele Soavi quello che sembra essere l’erede capace di prendere le redini del genere dai grandi nomi che gli avevano fatto scuola e di portare avanti la produzione di un certo tipo di cinema dell’orrore. 

Così effettivamente fu, almeno fino al 1994. Con l’uscita nelle sale di DellaMorte DellAmore si sancisce infatti l’abbandono dell’horror da parte del cineasta in favore della regia di fiction per la televisione. Qualche sporadico bagliore si presentò successivamente nel 2006 e nel 2008 con l’uscita dei rispettivi Arrivederci amore, ciao e Il sangue dei vinti che marcano una breve parentesi di ritorno alla regia per il grande schermo, ma lasciando comunque da parte il cinema dell’orrore in favore del noir e thriller che aveva contraddistinto fin da subito i suoi lavori televisivi.

Vogliamo però accompagnarvi oggi indietro nel tempo, per riscoprire le ragioni per cui Michele Soavi forse era effettivamente l’erede designato dell’horror di cui avevamo bisogno ma che forse non ci meritavamo.

DELIRIA – LO SLASHER SECONDO SOAVI

Fu quel grande genio di Aristide Massaccesi che […] mi disse: “Michele, ho pensato di farti debuttare, di farti fare a te un film da regista.”

Michele Soavi

Partendo dalla sceneggiatura di Luigi Montefiori (che curò anche il soggetto di partenza), Aristide Massaccesi assieme alla sua casa di produzione associata Filmirage presenta a Michele Soavi – già da diversi anni aiuto regia di Dario Argento – il progetto di un tipico slasher a basso costo: un gruppo di giovani adulti facenti parte di una compagnia teatrale si chiude all’interno di un teatro per potersi cimentare in un’intensa sessione di prove, ignari che all’interno della struttura si trova però un efferato serial killer fuggito da un ospedale psichiatrico nelle vicinanze.

Da una sceneggiatura decisamente semplice ma al tempo stesso ricca di spunti, Soavi crea quello che per molti fu uno degli slasher migliori degli anni ’80. Centrale nel racconto è l’anima metacinematografica con cui Soavi riflette sul cinema attraverso il teatro: una produzione a basso budget, che deve essere realizzata in tempi molto ristretti, con attori sconosciuti che si trovano lì perché devono portare lo stipendio a casa ed un regista che farebbe di tutto pur di mostrare al mondo la sua arte e vendere i biglietti per i suoi spettacoli, tanto che quando viene ritrovata la prima vittima dell’assassino, pensa di utilizzare l’avvenimento a proprio vantaggio per attirare il pubblico. Estremizzazioni, senza dubbio, ma comunque congrue a quelle che erano le produzioni di b-movie horror in quegli anni.

I personaggi vengono poi messi in scena da Soavi con una certa maestria, poiché da strutture di partenza definite e conosciute – il ragazzo belloccio, la poco di buono, la santarellina, lo strambo –  si dipana un susseguirsi di eventi che non segue sempre ciò che si è soliti aspettarsi dallo slasher tipico, esempi ne sono l’attenzione quasi paritaria che l’assassino riserva agli uomini ed alle donne (dove spesso invece per gli uomini si hanno uccisioni più sbrigative, mentre alle donne è riservata la pena maggiore) o la sopravvivenza della insopportabile “poco di buono” fino alle battute finali.

Dal punto di vista visivo ci si ritrova davanti ad un lavoro che mostra tutte le limitazioni di budget, soprattutto nelle location di alcuni momenti nella seconda metà della pellicola – tenendo comunque conto che questi ambienti così “reali e poco costruiti” potrebbero non essere dei malus, bensì dei punti di forza del prodotto – ma innegabile anche qui è l’ottimo connubio che si genera tra la fotografia della coppia Massaccesi-Tafuri e la regia di Soavi – il quale in primis aggiunse direttamente in fase di produzione alcuni elementi come la sedia rossa su cui siede l’assassino sulle battute finali o la maschera da barbagianni che copre il volto dello spietato serial killer – capace di creare una messa in scena inquietante e divertente anche a trentasei anni di distanza. Un cult senza tempo, troppo poco conosciuto e che meriterebbe invece molte più attenzioni.

LA CHIESA – L’ULTIMO GOTICO ITALIANO

Dopo aver curato nel 1989 la regia di seconda unità per Le avventure del barone di Münchausen diretto da Terry Gilliam – che lo stesso Soavi definì più di una volta “il miglior regista vivente” – unisce l’esperienza maturata sul set a quelle passate per dirigere lo stesso anno il suo secondo lungometraggio: La Chiesa.

Le origini di questa pellicola risalgono però a quattro anni prima, in quel 1985 in cui arrivò nelle sale il primo Demoni diretto da Lamberto Bava – in cui Soavi curò la regia di seconda unità oltre ad interpretare un piccolo ruolo come attore – un grande successo di pubblico che portò alla nascita di un secondo capitolo – sempre diretto da Bava – ed alle basi per un ipotetico terzo capitolo. A causa degli impegni stipulati tra Bava e Fininvest per la realizzazione del film in due parti Fantaghirò il regista romano dovette però rinunciare alla realizzazione di Demoni 3 che finì perciò per essere riscritto da Argento (già produttore dei precedenti) e Franco Ferrini. Grazie al successo di Deliria ed all’esperienza sul set di Gilliam, fu quasi immediata la decisione di Argento di chiamare l’amico Michele per dirigere il film.

L’intervento di Soavi si presenta fin da subito: con un ruolo attivo già nella stesura della sceneggiatura, l’intento del regista è stato quello di rendere il film più “sofisticato”. Fin dalla prima sequenza questo risulta alquanto evidente: in pieno Medioevo, un gruppo di guerrieri teutonici a caccia di streghe massacra tutti gli abitanti di un villaggio, bruciandolo e seppellendo i corpi in una fossa comune. Spaventati dal male che sembra permeare il luogo, decidono perciò di costruire su quel terreno una cattedrale capace di tenere a bada le oscure presenze.

Da un incipit chiaramente ispirato al Conan Il Barbaro di John Milius – che Soavi mette in scena con grande maestria, riuscendo ad unire la massiccia violenza visiva all’utilizzo di espedienti registici unici, come la soggettiva dall’interno dell’elmo del cavaliere – la pellicola trasporta lo spettatore in una storia facilmente definibile in due sezioni: una prima più psicologica e misteriosa, in cui l’orrore si manifesta attraverso musiche inquietanti – curate da Keith Emerson e che comprende anche tracce dei Goblin – e sequenze che strizzano l’occhio all’onirico, portando i personaggi in una lenta discesa all’inferno (letteralmente) sotto la cattedrale e che sfocerà poi in una seconda parte della pellicola che torna alla natura originale di quel Demoni 3 mai realizzato, con un escalation di violenza, sangue, gore e body horror che non può non ricordare i fasti di quel cinema horror tipico dei maestri di Soavi ed in particolare Bava.

Difficile risulta, come tipico di queste pellicole, identificare in un personaggio specifico il protagonista, in quanto tutti quelli che vediamo, uomini e donne, adulti, anziani o bambini sono meri involucri il cui unico scopo è alimentare la violenza e la voglia di sangue di quella che può essere identificata sotto certi aspetti come la vera protagonista: la chiesa stessa. Piccola parentesi per lodare l’ottima prova attoriale di una giovanissima Asia Argento, estremamente in parte nel ruolo della giovane Lotte, simbolo di una nuova generazione di giovani in cerca di libertà e divertimento in fuga dal bigottismo e dalla religiosità oppressiva dei genitori.

Grande merito va inoltre riconosciuto a tutto il comparto tecnico, in particolar modo alla regia di Soavi, funzionale, fluida e semplice ma sempre capace di generare tensione e mostrare le vicende in maniera artisticamente ispirata, ed alla scelta delle location, divise principalmente tra le misteriose catacombe sotterranee ricostruite in studio e le navate della cattedrale riprese nella chiesa di Mattia a Budapest, capaci di donare al tempo stesso mistero e solennità.

Vietato originariamente ai minori di 18 anni e poi abbassato ai 14 il film si rivelò uno degli incassi più alti dell’anno in Italia, consacrando ulteriormente Michele Soavi tra i grandi autori horror di quegli anni. Per alcuni questo fu un ulteriore passo di una brillante carriera, mentre per altri si trattava dell’ultimo barlume di speranza prima che calasse il buio.

LA SETTA – IL ROSEMARY’S BABY ITALIANO

Lo sceneggiatore è sempre un po’ deluso quando vede il film, perché si è fatto un suo film. Invece con La Setta è stato il primo film in cui ho detto “questo film è meglio di tutto quello che noi avevamo fatto”.

Giovanni Romoli

Risulta semplicistico, addirittura errato per alcuni versi ma comunque inevitabile assimilare il film del 1991 diretto da Soavi con il capolavoro datato 1968 di Roman Polanski. Partendo dalla sceneggiatura dal titolo Katacumba scritta da Luca Verdone – fratello di Carlo Verdone e regista di 7 chili in 7 giorni – in accordo con Cecchi Gori, Dario Argento – allora produttore esecutivo del progetto – decise di scartare l’idea e ricreare dalle fondamenta il progetto, riscrivendo assieme a Giovanni Romoli ed a Michele Soavi una nuova sceneggiatura: prende così vita La Setta.

Con un incipit ambientato nel deserto del Sud della California degli anni ’70, il film mostra una setta intenta ad uccidere alcuni hippie invocando il demonio ed il cui leader sembra avere come obiettivo il generare in carne ed ossa il figlio del Diavolo. Nel 1991, Miriam Kreisl – a cui da volto e voce Kelly Curtis, figlia di Janet Leigh e sorella maggiore di Jamie Lee Curtis – una giovane maestra di scuola elementare di Francoforte investe inavvertitamente un misterioso anziano, che accompagna nella sua abitazione per scusarsi dell’accaduto ed aiutarlo a rimettersi in sesto. 

Dove la pellicola di Polanski metteva in scena il concepimento dell’Anticristo già nelle prime scene seguito poi da un continuo senso di oppressione provato dalla protagonista a causa delle sempre più pressante presenza dei membri della setta, Soavi decide di mostrare solo sul finale l’atteso concepimento e l’arrivo del nascituro anticipando il momento con un susseguirsi di sequenze oniriche e sovrannaturali che contribuiscono alla personale discesa della protagonista nel suo inferno personale. Centrale risulta il ruolo che Soavi affida agli animali presenti nel film: il coniglio, di cui la protagonista possiede un esemplare albino in casa e che rappresenta fertilità e rinascita qui travisati nel dare al mondo il male; il pellicano, traviato qui dalla simbologia cristiana del sacrificio di Cristo a quello delle numerosi morte della pellicola per versare il sangue necessario per il rituale; ed infine lo scarafaggio, animale spesso associato alla paura, all’ansia ed alla presenza di oscure forze dentro il proprio corpo: non a caso nella pellicola viene posto sul volto dormiente della protagonista andandosi poi ad infilare in una narice, preparando all’interno della ragazza il seme per il demonio.

Non senza problemi tutto questo viene messo in scena, soprattutto a causa di una sceneggiatura con un ottimo spunto di partenza che viene però snocciolato con l’avanzare della vicenda in maniera a tratti scontata e ad altri eccessiva, fino al finale eccessivamente sopra le righe e per cui risulta necessaria una grande sospensione dell’incredulità e che finisce per far crollare tutta la tensione fino a quel momento accumulata.

Una lancia va però infine spezzata per le ottime prove attoriali dei due personaggi principali, messi in scena dalla sopracitata Kelly Curtis – scelta da Argento, rimasto estremamente soddisfatto dalla prova tanto da giudicarla addirittura più brava della sorella – e da Herbert Lom – l’ispettore Dreyfus de La Pantera Rosa – che sul fine della sua carriera riesce ancora a brillare donando un’ottima caratterizzazione al vecchio pazzo Moebius.

Una pellicola di pregevole fattura soprattutto sul lato tecnico e che mostra tutta la maturazione raggiunta da Soavi che riesce a donare fascino e mistero ad una storia interessante anche se a tratti problematica, che presentò infatti al botteghino risultati altalenanti scremando il pubblico e preparandolo al film successivo, da molti definito il canto del cigno del cineasta.

DELLAMORTE DELLAMORE – IL CANTO DEL CIGNO

Era un film anomalo: non solo era un film di genere, poteva riuscire un fiasco micidiale per la sua stupidità; nel senso che, comunque, aveva come background un umorismo da fumetto […] puoi pure pensare di trasportarlo uguale nel cinema, quel tipo di umorismo, ma non è così: se lo rifai uguale fai una cazzata; […] la gente o vuole ridere o vuole avere paura, in mezzo non c’è niente: se ci vai esplori una terra di nessuno.

Michele Soavi

Bisogna attendere il 1994 per vedere Michele Soavi nuovamente in sala e ciò avviene grazie all’adattamento del romanzo di Tiziano Sclavi DellaMorte DellAmore di cui la pellicola prende in prestito anche il titolo. Per molti il nome di Sclavi significa solo e soltanto Dylan Dog, ma pochi sanno che proprio il libro – scritto nel 1983 ma pubblicato soltanto nel 1991 – funge da precursore spirituale del più famoso indagatore dell’incubo italiano.

Protagonista della vicenda è Francesco DellaMorte, becchino del cimitero di Buffalora impegnato ad affrontare una misteriosa “epidemia” che sembra riportare in vita i morti entro sette giorni dal decesso. Assieme a lui si presentano poi sullo schermo altri personaggi bizzarri, dall’aiutante Gnaghi affetto da disabilità intellettiva alla misteriosa ma affascinante vedova con un debole per gli ossari – interpretata magistralmente da una giovanissima Anna Falchi. Chiunque abbia letto almeno un albo dei fumetti di Sclavi si sarà già reso conto di come questo racconto presenti uno stile molto simile a quello tipico dei racconti di Dylan Dog, il tutto enfatizzato ulteriormente dalla presenza di Rupert Everett nei panni del protagonista, attore a cui Sclavi si ispirò originariamente per le fattezze del Dog fumettistico.

L’aspetto surreale ed onirico già presente nei precedenti lavori di Soavi viene qui portato all’estremo, creando una pellicola in cui ogni singolo fotogramma appare come uscito da un sogno o da un quadro surrealista – con tanto di appassionante bacio ispirato a Gli Amanti di Magritte – in cui violenza e sangue si mischiano ad un umorismo nero in una continua escalation di allucinanti sorprese che conduce ad un finale sopra le righe e che lascia lo spettatore emozionato ma confuso, proprio come alla fine di un misterioso sogno che si trasforma presto in un incubo tra zombi motociclisti, teste di sposa parlanti, stracci che si ricompongono a formare la Morte, spiritelli, inquietanti dopplegänger e strani omicidi.

Un film per pochi, per un pubblico accuratamente specifico e di nicchia. Non sorprende perciò che, in maniera simile a quanto successo con la pellicola precedente, anche questo film non si rivelò il successo sperato portando così il cineasta ad abbandonare definitivamente il genere ed a rifugiarsi, come tristemente annunciato ad inizio articolo, nei lidi della produzione televisiva. Una piccola consolazione il fatto che con gli anni questi film sembrano aver raggiunto lo status di cult, con la speranza che un giorno Michele Soavi venga riscoperto e magari torni, chissà, ai lidi dell’orrore, lasciandosi così alle spalle l’epiteto di erede dimenticato.

La morte, la morte,

La morte cha arriva.

La morte schifosa, la morte lasciva.

La morte che vola, la morte normale

Che cela del mondo pietosa ogni male.

La morte che vive, la vita che muore,

La morte, la morte.

La morte e l’amore

Che aspettano insieme l’eterno giudizio

E non hanno mai fine, non hanno mai inizio.

Questo articolo è stato scritto da:

Mattia Bianconi, Redattore