Nella filmografia di Lars von Trier, Melancholia è sicuramente tra gli esiti più cupi del regista danese. Presentato in concorso alla 64ma edizione del Festival di Cannes, il film ha conquistato Le prix d’interpretation féminine, attribuito a una Kirsten Dunst in stato di grazia.
Centotrenta minuti, un’ouverture e due parti: l’undicesimo lungometraggio di von Trier narra le ultime ore dell’umanità prima che la Terra entri in collisione con il pianeta Melancholia. La fine del mondo è certa, non vi è scampo, e Lars von Trier mostra il funesto destino della specie umana nelle scene che compongono l’ouverture, commentate dall’intenso preludio al Tristano e Isotta di Richard Wagner. La scelta di rivelare fin da subito il finale di Melancholia, ha spiegato più volte il regista, è fortemente motivato dalla volontà di arginare ogni possibile distrazione da parte del pubblico: già cosciente del destino inevitabile del pianeta, lo spettatore ideale di von Trier concentra i suoi sforzi interpretativi nella decifrazione delle relazioni umane, della psiche e dell’apocalisse psicopatologica esperita dai protagonisti. Pur trattandosi, all’apparenza, di un film catastrofico – non si può non pensare al più recente Don’t Look Up (Adam McKay, 2021) – Melancholia è in primis una profonda riflessione sulla condizione umana e sul senso dell’esistenza.
L’apocalisse psicopatologica di Justine
Lars von Trier racconta la genesi del film come esito di un periodo di profonda depressione: la distruzione della Terra risulta essere (parzialmente) un espediente narrativo per indagare la reazione umana verso un disastro immane. In questo senso, il regista non si avventura in complesse elucubrazioni astrofisiche: tuttavia, è indubbia la tensione analitica che attraversa tutto il film e che pare, a tutti gli effetti, non dissimile a un esperimento scientifico debitamente controllato. Il soggetto principale dell’indagine è la protagonista Justine (Kirsten Dunst) che, per certi versi, si configura come alter ego di von Trier in seno allo stato depressivo che affligge la giovane. Justine – nome derivato dal romanzo Justine o le disavventure della virtù del Marchese De Sade – è una neosposa che gioiosamente si reca alla festa di nozze insieme al marito Michael (Alexander Skarsgård). Il contesto festoso, tuttavia, è minacciato dai dissapori tra i genitori di Justine, Gaby (Charlotte Rampling) e Dexter (John Hurt): questi agiscono da fattore scatenante che fa riaffiorare il disturbo depressivo di cui Justine soffre da tempo. In questo senso la ‘Melancholia’, che di lì a poco distruggerà la Terra, è anche il male (la melancolia) che porta la protagonista alla devastazione interiore e al disfacimento dei suoi rapporti professionali e intimi. L’apocalisse di Justine è di natura psicopatologica: il disagio provato durante la festa di nozze – che omaggia, per certi aspetti, Festen – Festa in famiglia (Thomas Vinterberg, 1998) – consuma l’equilibrio psicofisico di Justine e dello spettatore, destabilizzazione resa attraverso primissimi piani e la macchina da presa a spalla tipica del linguaggio di von Trier.
Tuttavia, l’annichilimento della protagonista coincide con una rinascita interiore: da uno stato di annullamento psicofisico – reso evidente dalla straziante scena del bagno – Justine riacquista progressivamente una consapevolezza di sé stessa e si riappropria, in questo senso, di un legame con la Terra che pareva perduto. La sua percezione della fine del mondo come tale risulta alterata – in termini positivi – dal suo stato depressivo che, nonostante risulti invalidante in contesti sociali come la festa di nozze, permette a Justine sia di accogliere serenamente l’apocalisse, sia di acquisire una conoscenza altra, inaccessibile e sovrannaturale. Così come l’Ofelia di John Everett Millais attende serenamente il sopraggiungere della morte, anche Justine accoglie l’apocalisse – personale e globale – con una beatitudine quasi cristiana.
L’apocalisse (terribilmente umana) di Claire
In principio, Justine pare l’anello debole del contesto sociale in cui si ritrova a far parte: la sua instabilità psichica è invalidante e porta il suo matrimonio e i suoi rapporti lavorativi allo sgretolamento. L’anello forte della famiglia, d’altra parte, è Claire (Charlotte Gainsbourg), moglie e madre che tenta di salvaguardare il benessere della sorella Justine, nonostante il loro travagliato rapporto. Claire, in questo senso, rappresenta, in apparenza, la stabilità psicofisica, la capacità di assistere l’instabile Justine senza che la sua fermezza venga compromessa. Tuttavia, è l’elemento sovraumano – il pianeta Melancholia e, dunque, la melancolia stessa – a disvelare la fragilità di Claire e del marito John (Kiefer Sutherland): nonostante la condivisa convinzione di una fine del mondo sventata, la loro razionalità crolla drammaticamente nel momento in cui entrambi comprendono che l’apocalisse è vicina. Così, a differenza della beatitudine cristiana di Justine – trasmessa anche al figlio della sorella – Claire trema, piange, si dispera: la sua reazione terribilmente umana di fronte all’apocalisse porta a domande fondamentali riguardo alla fine del mondo così come lo conosciamo e a quale sia il modo migliore per reagire a tutto ciò.
In questo senso, Charlotte Gainsbourg è bravissima, al pari di Kirsten Dunst, nel restituire la crescente disperazione del proprio personaggio nel momento in cui, attraverso un rudimentale dispositivo di misurazione del pianeta, comprende che la collisione è imminente. Complice il sodalizio artistico con Lars von Trier, Charlotte è consapevole delle intenzioni del regista e del ruolo di Claire all’interno di questo sofisticato esperimento psicologico.
La fine del mondo
Melancholia non è un film catastrofico nel senso hollywoodiano del termine: la fine del pianeta Terra e dei suoi ecosistemi viene narrata dal punto di vista di un microcosmo isolato dalla società, racchiuso entro i confini di una desolata casa in campagna, i cui giardini ricordano quelli di L’anno scorso a Marienbad (Alain Resnais, 1961). Lars von Trier, abile narratore di storie liminari ma, intrinsecamente universali, racconta l’apocalisse attraverso punti di vista diversi: il proprio, mostrato nell’ouverture, è affine al dramma musicale di wagneriana memoria, come viene esplicitato dal preludio al Tristano e Isotta, proposto nella sua interezza.
L’apocalisse, in questo senso, viene dotata di una bellezza al contempo sovrumana e straziante: la lenta collisione dei due pianeti – resa come un bacio mortale che sgretola la Terra – viene inframmezzata da immagini che anticipano scene presenti nella seconda parte del film, che mostrano, per l’appunto, sia la relazione viscerale di Justine con la natura, sia la disperazione di Claire. Le scene sono dei veri e propri tableaux vivants in cui i personaggi si muovono a ralenti, movimento reso possibile attraverso una macchina da presa debitamente modificata da von Trier per rendere possibile l’effetto. La sequenza di immagini, commentate dal brano di Wagner, sortisce un effetto sublime nel senso burkiano del termine: la paura della morte e la spaventosa magnificenza del Sublime convergono nell’opera di Lars von Trier e accompagnano lo spettatore in un viaggio nei meandri della psiche umana, nelle segrete dei suoi timori più ancestrali.
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