Massimo Troisi ci lasciava il 4 giugno di trent’anni fa. Moriva di notte, nella sua stanza, da solo. Ha lasciato questo pianeta esattamente come gli garbava gironzolare in vita: in punta di piedi, con umilità, senza infastidire nessuno.

Qualcuno dice si sia sacrificato per l’arte. Nella primavera del 1994 Massimo decise di rimandare l’operazione di trapianto del cuore per poter finire le riprese de Il Postino, film che gli valse una candidatura postuma all’Oscar, perché “io Il Postino con il cuore di un altro non lo faccio.” Però, spiega la sua ex compagna di vita Anna Pavignano nonché co-sceneggiatrice della quasi interità della sua filmografia, si trattò in realtà di una semplice questione organizzativa: Massimo voleva chiudere con gli impegni legati alla pellicola per poi dedicare la sua mente all’operazione in seguito. Eppure gira da sempre un alone di poesia attorno al nome di Massimo Troisi legato alle circostanze della sua morte: “ci ha lasciati sull’ultimo ciak”. Quasi una persona possa morire in maniera poetica.

C’è un’operazione di ridefinizione del termine “poeta” in riferimento a Massimo Troisi che lo definirebbe al meglio come artista e ne spiegerebbe una specie di simil-immortalità: Troisi ci abbraccia oggi da dietro lo schermo quasi più forte di quanto non lo facesse negli anni Ottanta.

Massimo Troisi, attraverso l’estensione di sè che erano i suoi personaggi, si è sempre dimostrato paladino della timidezza e dell’umiltà. Ma è proprio qui il paradosso: i timidi non hanno bisogno di paladini e ancor meno desiderano di esserlo. Perciò l’eredità di Massimo Troisi in quanto “poeta” è qualcosa di intrinsecamente sbagliato. Massimo Troisi non avrebbe mai avuto l’arroganza di considerarsi al di sopra di nessuno di noi, uno a cui di cose giuste nella vita gliene sono capitate tre, uno che vuole soffrire tranquillo senza essere sconcentrato, uno che la morte s’è l’è segnata in una casella sul calendario ma poi l’ha dimenticata, perché poi alla fine a lui importava solamente finire quel film e dunque andare avanti a fare quello che gli riusciva meglio: essere sé stesso. 

Tendiamo in generale ad associare erroneamente il termine “poeta” a qualche contenuto di qualità elevata e magari alto-borghese, mentre la definizione stessa di “poeta” è semplice “colui che scrive poesie.” Massimo Troisi è dunque per definizione poeta: i suoi quaderni sono pieni di poesie, come lo sono le sue sceneggiature. Ma se ci ritroviamo oggi a definirlo poeta, con qualsiasi accezione elegante e lusinghiera, è perché “la poesia non è di chi la scrive, ma di chi gli serve.” Noi che oggi leggiamo le sue poesie lo dobbiamo pur definire in qualche modo Massimo Troisi. Ci piace dunque ricordarlo così: un uomo semplice che non aveva alcuna presunzione di essere definito in altro modo. E forse è proprio per questo che la sua “poesia” rimane immortale: le sue parole, come la sua gestualità, non sono state sporcate di arroganza. È la parte più pura e genuina di noi essere umani, immortale ai cambiamenti dei tempi e delle generazioni, che riposa serena da trent’anni nelle anime di noi timidi e imbranati. 

Lara Ioriatti,
Redattrice.