Quanto di noi possiamo ritrovare in un documentario di montagna? Tanto, se parliamo per esempio di Marmolada – Madre Roccia, il documentario Sky presentato in anteprima al Trento Film Festival e vincitore del premio Città di Imola. Una storia di alpinisti e arrampicatori che attraversa quattro generazioni e accoglie una riflessione su un’umanità grande tanto quanto una “formichina”. Così si sente Iris, che a soli 19 anni è entrata nella storia dell’arrampicata, ma a lei interessa poco. Preferisce parlare di avventure su una roccia che trattiene le anime. Un’opera tutto sommato formulatica, ma che ci ricorda l’importanza di andarci a specchiare in storie più grandi di noi, che ci fanno sentire tanto protetti in quest’immenso roccioso abbraccio materno. Finalmente abbiamo il nostro Free Solo italiano: che il documentario di montagna (ri)parta di qui.

Abbiamo incontrato gli autori, Cristiana Pecci e Matteo Maggi, per chiacchierare di vita, di montagna e di morte. 

Rispetto al vostro precedente progetto (The Fifth Sun, disponibile a noleggio su Vimeo, ndr), Marmolada – Madre Roccia si intrufola in un mondo che si allontana parecchio dai vostri interessi. Come avete approcciato il progetto?

[Cristiana] Io e Matteo, in montagna, siamo come due pesci fuor d’acqua. È stata un’opportuntà che ci è stata regalata da Sky, a cui è piaciuto il nostro precedente documentario e ha deciso di volerci affidare una storia. Abbiamo iniziato con una fase di scrittura che si è conclusa con il documentario sulla Marmolada. È stata sicuramente una sfida, ma l’approccio è stato di totale rispetto nei confronti di un mondo che non conoscevamo. E poi c’era tanta curiosità, quindi ci siamo preparati. Siamo stati aiutati da Matteo, Massimo, Maurizio e Iris (i protagonisti del documentario, ndr) e abbiamo fatto ricorso a tutta l’attrezzatura necessaria a facilitarci nel lavoro. Per non aver mai arrampicato in vita nostra ce la siamo cavata bene, no?

Collegandomi a questo discorso, cosa sperate si porti a casa uno spettatore che non ha mai arrampicato in vita sua?

[Matteo] Raccontare lo sport con rispetto nei confronti di chi lo pratica è sempre stato il nostro obbiettivo. Non ci aspettiamo che guardando il documentario lo spettatore si appassioni di arrampicata o di alpinismo. Ci siamo semplicemente resi conto del potenziale fascino che possiede questo sport, anche cinematograficamente parlando. Se mi facessero scegliere tra la produzione di un documentario sul surf o uno sull’alpinismo, io sceglierei l’alpinismo senza pensarci due volte, perché credo parli di vita molto più di qualsiasi altro sport. In più. al di là dei vari messaggi che il documentario può trasmettere, credo che quello principale sia quello dell’avventura. Viviamo in un’epoca in cui l’avventura va meno di moda… mi viene quasi da dire che aprire una nuova via, che è quello che tentano i protagonisti del nostro documentario, è una delle ultime forme di avventura che si possono avere. Avventura nel senso di qualcosa di mai fatto prima, di un percorso che non è mai stato tracciato prima nella storia. Secondo me questo ha un fascino enorme ed è quello che volevamo trasmettere con questo documentario. L’arrampicata e l’alpinismo, come sport, è solo uno degli aspetti che si vivono nel documentario, ma non è il principale.

Nel documentario si parla della differenza tra un “alpinista” e una “guida alpina”, ove l’alpinista è più ancorato al momento presente, mentre la guida alpina si assicura di lasciare in eredità qualcosa ai futuri scalatori. Come vivete questo conflitto, se si può definire conflitto, e come definite un equilibrio tra le due visioni dell’arrampicata?

[Cristina] Io non lo vivo come un conflitto. Sicuramente è una scelta, che ognuno di loro ha fatto per ragioni proprie. Forse Massimo è il connubio tra i due. Ovviamente la guida alpina di formazione ha questa preparazione che prevede l’attenzione all’altro, quindi il suo obbiettivo si spinge oltre all’avventura. Si può forse definire un approccio un pò più generoso. Penso anche al fatto che non tutti gli alpinisti sono guide alpine, ma probabilmente le guide alpine in un certo qual modo sono tutte alpinisti. Forse anche noi, in quanto documentaristi, siamo il connubio tra i due.

Cito una frase specifica: “Mai vendere la pelle dell’orso prima di averlo preso”. Come avete gestito la possibilità di un insuccesso?

[Matteo] Spesso come documentaristi non è detto che non ce lo siamo augurati. Mi spiego meglio: spesso l’insuccesso della storia è il successo della nostra. Il fallimento è una grande opportunità all’interno della narrazione, e l’alpinismo è un mondo pericoloso. La nostra formazione ci aiuta a essere pronti nell’eventualità di incidenti di qualunque tipo, e in quanto documentaristi siamo tenuti a non spegnere la telecamera, capendo qual è la prossima strada da seguire. Il fallimento, dunque, non sarebbe stato così deleterio al documentario. La montagna insegna anche quello: il miglior alpinista è quello che dorme nel suo letto la notte, quello che non spinge mai troppo e cha sa rinunciare alla vetta. Bisogna sapersi fermare e, nell’eventualità, saremmo stati lì a riprendere il tutto.

Mi affascina il rapporto tra la montagna e la morte, tema ricorrente nel documentario. Nello schema grande delle cose, cos’è la montagna per voi? È custode o assassino? La temete o la venerate? 

[Cristiana] È un rapporto che ha incuriosito anche noi dal primo secondo. Abbiamo molto spinto per raccontare quell’aspetto. Ovviamente e per fortuna la nostra avventura non ha previsto incidenti mortali, ma i nostri alpinisti hanno vissuto la morte da vicino, chi dei compagni di cordata e chi dei propri cari. La risposta è complessa, nel senso che loro hanno un rapporto con la morte diverso da noi persone “normali”. Avendola tra le mani è come se la accettassero, come se facesse parte della vita, di un percorso, quindi mettono in conto che possa arrivare per loro da un momento all’altro. A loro va bene così, per noi è qualcosa di più impattante. Personalmente ho voluto optare per la delicatezza, perché la montagna mi fa paura: è qualcosa che trascende il nostro controllo.

[Matteo] Maurizio d’altro canto diceva “Non si va a scalare pensando sia pericoloso. Si arriva preparati, al massimo delle proprie capacità. Non si arriva pensando “potrei non tornare a casa”, altrimenti non parti e basta”. Poi succede, perché l’esperienza dice che succede, ma non lo mettono così tanto in conto. È l’imprevisto, come nella vita

Riguardo alle persone che hanno perso la propria vita in montagna, si può definire la Marmolada una specie di  “custode delle anime”?

[Cristiana] Speriamo sia così. Nella tristezza della cosa, è una bellissima immagine.

[Matteo] Ho spesso paura nelle interviste di parlare di alpinismo perché non siamo alpinisti, come ho paura di parlare di cambiamento climatico perché abbiamo la responsabilità ma non i mezzi. Non l’ho vissuta la morte sulle montagne da vicino, quindi non lo so cosa succeda lassù. So solo raccontare quelle anime attraverso le testimonianze dei protagonisti, che è quello che abbiamo provato a fare con questo documentario.

Per concludere: qualche film o regista in particolare che ha influenzato la realizzazione di questo documentario?

[Cristiana] Non per questo documentario nello specifico, ma in generale consiglio di approfondire Erik Gandini. Documentarista incredibile, ha un approccio originalissimo al genere del documentario. Merita.Marmolada – Madre Roccia è in arrivo su Sky nella stagione autunnale.

Lara Ioriatti,
Redattrice.