Madre, Figlia e Spirito Santo

Raccontare un’icona è sempre difficile. Lo sapeva il regista Maximilian Schell, che nel 1984 affrontò la “missione impossibile” di intervistare Marlene Dietrich, all’epoca già ritiratasi dalle scene e in sedia a rotelle; lo sapeva Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, che durante l’ultima edizione del Cinema Ritrovato ha introdotto il documentario che nacque da quelle poche ore di registrazioni vocali, Marlene, con un quesito giustamente altisonante: “Come si racconta lo Spirito Santo?”. 

Che sia la pista dell’umanità dietro la diva o della sua potenza iconografica, una strada va sempre scelta, quando si sceglie di parlare di un personaggio per cui fiumi di inchiostro sono stati versati e metri di pellicola girati come Marlene Dietrich, nata oggi nel 1901. In questo caso, la strada che percorreremo sarà quella di alcuni dei suoi ruoli cinematografici, con cui l’attrice riuscì spesso a mettere in discussione le regole di genere insite nelle storie raccontate.

Marlene a. v. S. (avanti von Sternberg)

Nel documentario di Schell Dietrich non le manda a dire, in primo luogo sui suoi ruoli nell’epoca del cinema muto: il rigetto verso di essi è netto. Tuttavia, i film di quel primo periodo ci forniscono degli elementi interessanti tenendo conto della traiettoria che avrebbe subito la carriera della diva.

Marlene Dietrich e Willi Forst in Café Elektric (1927, Gustav Ucicky)

In Café Elektric Dietrich è molto lontana dall’immagine di lei che ricordiamo: non una femme fatale, oggetto del desiderio da contendersi e agente involontaria del caos, ma una ingénue sedotta dal criminale scaltro che ne sfrutta l’innocenza e la porta lontana dalla “retta via”. Il personaggio “scompare” dopo la prima parte del film per fare spazio a una più convenzionale e moralmente accettabile (per l’epoca) storia d’amore tra un uomo ricco e una donna che, attraverso il suo amore, viene “salvata” da una vita di eccessi e prostituzione. 

Curiosamente, però, Dietrich scompare dopo aver ribadito la propria indipendenza (anche sessuale) e rimproverato il padre per il suo libertinaggio. Così facendo, condanna implicitamente l’ipocrisia di un sistema in cui la libertà sessuale della donna viene disapprovata mentre, al contrario, quella dell’uomo è normalizzata.

In Enigma (Die Frau, nach der man sich sehnt, 1929, Kurt Bernhardt) la situazione cambia: Dietrich ci viene presentata in un primo piano che ne cattura la bellezza, l’enigmaticità e l’erotismo conturbante. La sua sola presenza diventa motore dell’azione del protagonista: per lei, infatti, il discendente di una famiglia di ricchi industriali, peraltro sposatosi da poco, abbandona la sicurezza della propria vita e la segue in una torbida situazione illecita.

In questo caso, la donna è vittima e non carnefice, tanto che alla fine verrà uccisa dall’uomo da cui sta cercando di scappare. Ad ogni modo, come in ogni dramma pseudo-decadentista che si rispetti, la sola esistenza di questo femminile conturbante e sessualmente connotato porta alla completa rovina del protagonista maschile.

La collaborazione con von Sternberg: esotismo e diversità

Marlene Dietrich in L’angelo azzurro (Der Blaue Engel, 1930, Josef von Sternberg)

Nel 1930 avviene l’incontro artistico che avrebbe cambiato la traiettoria della carriera di Dietrich: quello con Josef von Sternberg, con cui l’attrice collaborò in 7 film che ne “costruirono” l’immagine divistica.

Il primogenito nato da questa collaborazione è L’angelo azzurro, considerato un po’ da tutti (Dietrich compresa) un effettivo ‘inizio di carriera’. Il film parla di un uomo “per bene”, il professor Immanuel Rath (Emil Jannings), che abbandona la sua quotidianità e rispettabilità e perde tutto innamorandosi di una cantante di varietà, Lola Lola (Dietrich). Quello che potrebbe essere un semplice soggetto pruriginoso e dimenticabile è in realtà un interessante racconto di dinamiche sociali e di genere, in cui al dogmatismo borghese ipocrita, rappresentato dalla scuola, si contrappone la sessualità disinibita ma naturale del mondo del cabaret, in cui è la donna ad assumersi il ruolo di persona che guadagna e forza dominatrice all’interno della relazione. Lola viene dipinta come fonte di rovina quando è finanziariamente indipendente e sessualmente libera, due cose per cui un uomo verrebbe lodato. Come da tradizione, all’indipendenza femminile corrisponde la rovina maschile.

Marocco (1930) rappresenta il debutto hollywoodiano dei due artisti. L’introduzione di Dietrich al pubblico americano è a dir poco iconica: con la nonchalance che è il suo marchio di fabbrica, l’attrice vestita in frac si esibisce in un numero da cabaret, seduce tutta la platea, bacia una donna nel pubblico, per poi donare un fiore alla sua costar, Gary Cooper.

Marlene Dietrich in Marocco, prima della leggendaria esibizione in frac

La storia di Marocco è un convenzionale triangolo amoroso tra un soldato squattrinato e irresponsabile, Tom Brown (Cooper), un’attrice disillusa, Amy Jolly (Dietrich) e un ricco e gentile gentiluomo, La Bessiere (Adolphe Menjou). Nonostante ciò, il film ha in sé un elemento di alterità dato dall’ambientazione (una ricostruzione fantasiosa e volutamente sensuale del Marocco) e dalla presenza di Dietrich, star europea che si presenta apertamente come donna queer e libera in opposizione a un personaggio maschile in costante balia delle scelte altrui. Anche il destino finale di Amy, che segue Tom in una spedizione nel deserto del Sahara, è solo in apparenza un atto di sottomissione: fino alla fine, Amy compie scelte radicali, ma sempre e indubbiamente sue.

Anche Shanghai Express (1932), noir ambientato sul treno Pechino-Shanghai, gioca molto sull’esotismo della location, con annessi e connessi stereotipi razzisti, come e peggio che in Marocco. Ancora una volta Dietrich è la donna promiscua, prostituta, bellezza occidentale affiancata a quella orientale di Anna May Wong. La relazione tra i personaggi è particolarmente interessante se teniamo conto del fatto che si ipotizza che entrambe le attrici facessero parte del “Sewing Circle” hollywoodiano, nome attribuito dalla stessa Dietrich a un gruppo di donne lesbiche e bisessuali del mondo dello spettacolo.

Anna May Wong e Marlene Dietrich in Shanghai Express

Per l’ennesima volta, Dietrich è una peccatrice redenta che si sacrifica per amore, con esplicito riferimento religioso. Ma anche stavolta la donna ha una sua rivincita personale: è l’uomo della relazione ad essere dipinto come apertamente nel torto e alla fine sarà lui a scusarsi profusamente con l’amata.

In Venere Bionda (1932) il personaggio di Dietrich compie un percorso più complesso: attrice ritiratasi per sposarsi e mettere su famiglia, Helen Faraday sceglie di tornare a calcare le scene per mantenere il marito malato. Di nuovo è il femminile a doversi assumere il peso del mantenimento economico, e stavolta la decisione di tornare ad una professione ai tempi considerata poco “raccomandabile” non rende Helen meno moglie o meno madre. Nonostante una liason con un uomo più ricco (Cary Grant), Helen afferma di amare ancora suo marito, e quando lo lascia lo fa solo perché minacciata di venire separata dal figlio. È proprio il marito per cui si è tanto sacrificata a costringerla a una vita di stenti, ed è solo una volta resasi conto di non poter dare un futuro al bambino che è Helen stessa a scegliere di abbandonarlo per il suo bene. Dopo un percorso di dissoluzione che implica (neppure troppo sottilmente) che Helen abbia dovuto “vendersi” in diversi modi per sopravvivere, Venere bionda si chiude non con la rovina di Helen, ma col riformarsi del nido domestico.

Cary Grant e Marlene Dietrich in Venere bionda

Marlene ad Hollywood

Durante e dopo la collaborazione con Sternberg, Dietrich lavorò in America e supportò lo sforzo bellico durante la Seconda Guerra Mondiale.

In Partita d’azzardo (Destry Rides Again, 1939, George Marshall) si trova in un contesto “altro” rispetto al suo solito, ovvero un western. Purtuttavia, Dietrich continua ad essere Dietrich: una cantante e femme fatale di nome Frenchy che ruba continuamente la scena e si proclama e comporta come “uno dei ragazzi” del saloon in cui lavora. Sarà lei, a fine film, a prendere in mano le redini della situazione e provocare una rivolta tutta femminile che, proprio come il protagonista Tom Destry (James Stewart), fa a meno delle armi. Tuttavia, il destino del suo personaggio è più tradizionale di quello dei film di Sternberg: Frenchy muore tra le braccia del “suo uomo”, Destry, sacrificandosi per salvargli la vita. Come se non bastasse, ottiene un bacio finale solo dopo aver fatto il gesto di togliersi il rossetto, rinnegando implicitamente la sua vita di “peccatrice” e ottenendo una sorta di redenzione in extremis. Femme fatale ed eroe non possono stare assieme ad Hollywood, a quanto pare, tant’è che il finale ci lascia intendere che Destry probabilmente si accaserà con un’altra donna molto più “tradizionale” rispetto a Frenchy.

Marlene Dietrich si azzuffa con James Stewart in Partita d’azzardo

In Testimone d’accusa (Witness for the Prosecution, 1957, Billy Wilder), uno dei suoi ultimi film, regista e attrice giocano sulla sua “immagine” in quanto donna straniera (e bella!) vittima del sistema giuridico. L’avvocato penalista protagonista (Charles Laughton) è spinto, come il pubblico, a credere a causa di stereotipi che il marito della donna (Tyrone Power) sia vittima del suo fascino e lei colpevole del delitto di cui l’uomo è accusato. Non per niente, la storia da cui è tratto il film è stata scritta da una donna, la regina del mistero Agatha Christie.

Conclusioni

Col suo atteggiamento distaccato e il fascino senza tempo, Marlene Dietrich è stata il volto e il corpo di molteplici donne indimenticabili, caratterizzate da una tempra battagliera nonostante le sfide imposte loro dal mondo. È forse un caso, ma val la pena segnalare quanto spesso, con un gesto, un accento o la sua sola presenza, Dietrich sia stata capace di scardinare le impalcature narrative che la circondavano, donando spessore a soggetti poco interessanti e dignità a personaggi femminili spesso incompresi in fase di scrittura.

Marlene Dietrich in Testimone d’accusa

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Silvia Strambi,
Redattrice.