Nata dal cinema scandinavo ma fin da subito importata e sviluppata in Italia, la figura della diva si inserì nel panorama cinematografico italiano smuovendo una produzione ancorata principalmente a due generi: il film storico, o “in costume”, e il film comico. Di grande impatto visivo e ad alto budget il primo, più economico e veloce da realizzare il secondo.

A smuovere questo stallo produttivo fu “L’abisso” (1910) , film danese della Kosmorama diretto da Urban Gad e con protagonista Asta Nielsen. Da un punto di vista narrativo, il film non si distaccava dalle storie raccontate dai film danesi del periodo: melodrammi passionali in ambienti circensi, con tradimenti e finali tragici. Ma l’interpretazione della Nielsen e l’esplicito tono erotico del film colpirono il pubblico e l’attenzione della critica internazionale. In particolare, generò molto scalpore la scena della danza apache che la protagonista esegue intorno al suo compagno, avvinghiata a lui in una coreografia seduttiva e sessualmente esplicita. Urban Gad scelse di riprendere la scena da un lato del palco, di poco dietro le quinte (non frontalmente e dalla prima fila come nel teatro filmato). Un punto di vista privilegiato per lo sguardo dello spettatore che rende la scena più intima e d’impatto. Dopo l’uscita del film si venne a creare intorno all’immagine misteriosa e fatale di Asta Nielsen un interesse senza precedenti, facendo dell’attrice una delle star più famose del periodo e gettando le basi per una nuova figura nel cinema internazionale: la diva.

Il “diva film”

E proprio intorno a questa figura si sviluppò in Italia un vero e proprio genere che avrebbe fatto la fortuna dell’industria cinematografica italiana durante la Grande Guerra: il “diva film” (inizialmente chiamato “cinema in frack”). Ad inaugurare il genere fu “Ma l’amor mio non muore!” (1913), di Mario Caserini, con protagonista una delle attrici di teatro più famose dell’epoca, Lyda Borelli. Considerato uno dei film italiani più importanti del periodo prebellico, l’opera di Caserini riscosse un grande successo, dando il via definitivo al genere e definendo Lyda Borelli come la prima vera diva del cinema.

 I diva-film erano drammi eleganti, incentrati su passioni incontrollabili e intrighi aristocratici, costruiti interamente attorno all’attrice protagonista. Si concludevano spesso con delle scene madri estremamente drammatiche, in cui le protagoniste, vittime dell’amore, dell’ingiustizia o di loro stesse, muoiono (o quasi) davanti ai propri amati, se non davanti a un vero e proprio pubblico (il caso di Lyda Borelli in “Ma l’amor mio non muore!” o di Francesca Bertini in “Sangue Blu”). Le dive del cinema italiano si differenziavano dalle altre star del periodo (tra cui la “Biograph Girl”, Florence Lawrence)  per uno stile di recitazione più carico e drammatico e per il tipo di personaggi interpretati.

“Erano bellezze fotogeniche lautamente remunerate dalla nascente industria per le loro performance spettacolari. I loro personaggi sono spesso donne adultere: affrontano l’uomo ingaggiando serrati corpo a corpo, sfidandolo con il loro fascino irresistibile e dettano legge in materia d’amore.” – Cristina Jandelli.

Dopo il successo del film di Caserini, molte attrici si avvicinarono al cinema raggiungendo presto lo status di diva.

Attrici a confronto

Classe 1887, figlia d’arte, la Borelli debuttò in teatro a quattordici anni. Nel 1904 entrò a far parte della compagnia Talli, diventandone presto una delle prime attrici e arrivando a recitare al fianco di Eleonora Duse. Il suo successo, sempre più grande, la portò ad imporre il suo stile personale all’interno della compagnia. Nel 1913 venne chiamata da Mario Caserini per interpretare Elsa Holbein in “Ma l’amor mio non muore!”. La fama dell’attrice nel mondo del teatro, consolidata in una carriera allora già decennale, giocò un ruolo fondamentale nel successo del film. L’interpretazione della Borelli era ancora molto legata alla sua esperienza teatrale, ma riuscì comunque a trovare un equilibrio tra l’eccessivo e il meditativo. Recitò poi in molti adattamenti di opere teatrali da lei già interpretate sul palcoscenico, tra cui “Malombra” (1917),  uno dei primi film gotici della storia. Non allontanandosi dal suo stile molto personale, riuscì film dopo film ad adattarlo sempre di più alla macchina da presa, dominando il primo piano con i suoi gesti e con i suoi sguardi

La recitazione “borelliana” raggiunse l’apoteosi in  “Rapsodia Satanica” (1917), capolavoro di Nino Oxilia e variazione della vicenda faustiana, in cui Lyda Borelli interpreta un’anziana nobildonna che, tentata da un patto con il diavolo, rinuncia all’amore in cambio di una nuova giovinezza.

Di ben diverse origini era la collega e rivale Francesca Bertini. Nome d’arte di Elena Seracini Vitiello, la Bertini era figlia adottiva di un trovarobe napoletano e di un’attrice di prosa fiorentina. Nacque a Prato nel 1892, ma si trasferì subito a Napoli. Appassionata di teatro, si unì a varie compagnie di prosa (tra cui quella di Eduardo Scarpetta) ma la sua voce di gola era ritenuta sgradevole dai registi e le impedì di raggiungere il successo. Si trasferì a Roma per cercare fortuna al cinematografo e iniziò a lavorare alla Film d’Arte come comparsa, facendosi subito notare ed ingaggiare dalla Cines. Le sue interpretazioni convinsero Baldassarre Negroni ad assumerla come prima attrice alla neonata Celio Film. Ne nacque una collaborazione assai prolifica (venticinque pellicole in due anni) che culminò nel 1914 con “Histoire d’un Pierrot”, adattamento dell’omonima pantomima di Beissier, in cui la Bertini mise da parte l’immagine “aristocratica”, portata a schermo fino a quel momento, per interpretare il mimo Pierrot. Nello stesso anno recitò in “Sangue Blu”, di Nino Oxilia, pellicola che ancora oggi colpisce per la modernità della messa in scena e del montaggio. Oxilia dimostrò un grande gusto per la composizione dell’inquadratura, ispirandosi all’illuminazione dei film scandinavi, e una visione innovativa del montaggio narrativo. Da ricordare la scena nella Sala Grande del Casinò, dove si passa da un campo lungo in profondità di campo ad un primo piano tramite un raccordo sull’asse. Il modo in cui la Bertini interpreta il personaggio di Mira, principessa a cui viene portata via la figlia, è elegante e interiore, quasi in sottrazione. Esprime dolore e disperazione con lo sguardo più che con i gesti;  uno stile “più cinematografico” rispetto a quello della Borelli.

Nel 1915 recitò in “Assunta Spina”, uno dei maggiori successi della storia del cinema muto italiano e il più grande successo della sua carriera, da lei anche diretto insieme a Gustavo Serena. A differenza dei diva-film realizzati fino a quel momento, “Assunta Spina” non presenta personaggi nobili e grandi ville aristocratiche, bensì un ambiente popolare napoletano. La Bertini preferì infatti raccontare un tipo di realtà più vicina alle sue origini, più vera. Lo stile della recitazione dell’attrice, messa a punto nel corso degli anni, raggiunse qui il massimo della sua espressione. Il compimento dei piccoli gesti quotidiani conferirono grande realismo all’interpretazione e alla realtà rappresentata. Evitando i parossismi nelle scene madri, il film mette in scena i tormenti interiori della protagonista mediante il suo posizionamento nell’inquadratura (Assunta appare spesso rinchiusa dentro di essa) e attraverso il cambio di colore dei suoi vestiti (da bianco a nero). Inoltre, il sapiente uso del montaggio interno all’immagine contribuisce a rendere i momenti di maggiore intensità del film ancora più scioccanti e realistici, grazie anche ad un utilizzo narrativo della profondità di campo (la scena dello sfregio).

Negli anni che seguirono il successo del film, la Bertini strinse un sodalizio artistico con il regista Roberto Roberti, padre di Sergio Leone, e nel 1918 fu protagonista per alcuni film di propaganda, tra cui “Mariute” (1918), corto metacinematografico tra sogno e realtà.

Divismo e società

Come scrive Cristina Jandelli, le dive delinearono l’esistenza di una nuova figura di donna, proponendosi al pubblico femminile come un modello di emancipazione che investiva soprattutto la sfera dei comportamenti privati

I fotoritratti autografati dalle dive ne diffusero ulteriormente l’immagine, sia in territorio nazionale che all’estero. Ma fu soprattutto in Italia che il divismo prese velocemente piede. Nacquero dei neologismi, quali “borellismo” e “bertineggiare”, le ammiratrici ne imitavano le pose, dolenti e misteriose, emulandone le espressioni e il modo di vestire, e tutto ciò in un periodo in cui la stampa quotidiana non si occupava di cinema, ritenendolo un settore troppo giovane e non apprezzandone i personaggi rappresentati dalle dive. Furono infatti le riviste di settore ad ampliare il fenomeno divistico. “Nelle foto le dive escono dall’ombra, la pelle luminescente, argentea. Gli occhi scintillano.  L’espressione e la posa, tipicamente dusiane, è altera e con il mento leggermente sollevato. Sfidano chi le osserva, incarnano la seduzione del cinema.” – Cristina Jandelli.

Gli ultimi fuochi

Dopo la guerra, la concorrenza degli Stati Uniti tagliò gradualmente fuori l’industria cinematografica italiana portandola al declino negli anni Venti.

Dopo il suo matrimonio, nel 1921, Francesca Bertini diminuì drasticamente le sue apparizioni sul grande schermo e rifiutò un contratto milionario dalla hollywoodiana Fox. Tornò in modo sporadico sulle scene, ma sempre meno dopo l’avvento del sonoro.

Apparve per l’ultima volta sullo schermo nel 1976, in “Novecento” di Roberto Bertolucci, in una piccola apparizione nei panni di una suora. Morì nel 1985, dopo una carriera da oltre 100 film.

Dopo una breve carriera nel cinema e appena tredici film all’attivo, Lyda Borelli sposò l’industriale Vittorio Cini nel 1918. Il marito, geloso e ossessivo, la costrinse al ritiro anticipato e tentò di far sparire i suoi film dalla circolazione. Un simile e triste epilogo troverà un parallelo nella storia di Grace Kelly quarant’anni più tardi.

A differenza della sua collega, non tornò più davanti a una macchina da presa e venne per anni dimenticata. Morì a Roma, nel 1959. La figura della diva si trasferì ad Hollywood in pianta stabile, continuando a brillare sul grande schermo. Nel corso degli anni Venti, attrici come Clara Bow e Gloria Swanson ne portarono fieramente avanti il lavoro. Ma con tutto il suo fascino ed il suo richiamo, la diva farà ritorno in Italia in una forma rinnovata durante gli anni ‘40, segnando una nuova fase nella storia del cinema italiano.

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Simone Pagano,
Redattore.