“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”
(Vangelo secondo Giovanni, 1, v. 14)
Il movimento critico della politique des auters, nato in Francia negli anni ’50, indicava col termine “scarto” i film meno riusciti dell’opera di un regista meritevole del titolo di “autore”. Dell’opera di Martin Scorsese, L’ultima tentazione di Cristo (1988) rappresenta certamente e per diversi motivi lo “scarto”, il pezzo non del tutto riuscito, la nota stonata all’interno della composizione. In parte per la povertà di mezzi, dovuta al basso budget di soli 7 milioni, in parte per i tempi di ripresa molto stretti (58 giorni in Marocco), fattori che hanno portato secondo Scorsese a una “situazione d’emergenza” che l’ha costretto a girare un film sicuramente più ridotto rispetto a quello che aveva inizialmente pensato. Non aiuta poi il fatto che all’uscita sia stato oggetto di uno scandalo mediatico di ampissime dimensioni, alimentato da associazioni e gruppi religiosi (uno di questi arrivò addirittura ad incendiare un cinema dove il film veniva proiettato), che per anni ha dominato la discussione attorno alla pellicola oscurandone il valore artistico.
Tuttavia, come la politique des auters ci insegna, è dagli “scarti” che bisogna partire per poter apprezzare nella sua interezza l’opera di un autore. Scarti che, spesso, si dimostrano interessanti tanto (se non di più) quanto i capolavori riconosciuti.
UN PASSION PROJECY
Il film nasce da un’enorme passione di Martin Scorsese, il quale desiderava sin da bambino dirigere un film sulla vita di Gesù.
Infatti, la religione, nello specifico quella cattolico-cristiana in cui è stato cresciuto, ha avuto un’enorme influenza sul regista, che possiamo riscontrare in tutta la sua opera (si pensi ad esempio al successivo Silence). Parlando alla Catholic Media Conference a Québec, nel 2017, Scorsese ha affermato “L’atmosfera in chiesa è qualcosa di molto pacifico. Il potere della chiesa era una sorta di balsamo”, contrapponendo l’esperienza della messa alla sua vita quotidiana tumultuosa nelle strade malfamate di Little Italy. Scorsese aveva addirittura considerato la possibilità di farsi prete, ma il progetto era fallito dopo un anno di seminario.
L’idea di un film sul profeta del cristianesimo si sarebbe consolidata a seguito della lettura del romanzo L’ultima tentazione di Cristo, avvenuta nel 1972, durante le riprese del suo secondo film, America 1929-Sterminateli senza pietà (1972). A consigliarglielo era stata la giovane attrice protagonista: Barbara Hershey. Il libro dello scrittore greco Nikos Kazantzakis aveva causato indignazione a causa della notevole distanza dalle vicende descritte dalla Bibbia, ma ciò non fece demordere il regista, che affidò la sceneggiatura del suo progetto al collaboratore Paul Schrader.
Dopo una falsa partenza nel 1983 sotto la Paramount Pictures (il tutto si interruppe a pochi giorni dall’inizio delle riprese a causa di proteste seguite all’annuncio della produzione), nel 1987 il regista riuscì a rimettere in piedi il progetto, sotto le insegne della Universal Studios e con limitazioni rispetto all’idea iniziale.
Barbara Hershey, interprete di Maddalena, doveva ri-applicare da sola i propri tatuaggi, non essendoci abbastanza truccatori
Scorsese stesso, nel corso degli anni, si era impegnato per raccogliere fondi, lottando con unghie e denti per dare luce ad un progetto a cui evidentemente credeva molto e che, di lì a poco, gli avrebbe creato non pochi problemi. Le difficoltà incontrate nella lavorazione, che emergono dallo stesso prodotto finito, non soffocano comunque il risultato finale: l’impegno del regista e l’interesse verso il soggetto emergono prepotentemente dalle immagini su schermo e dalla narrazione.
ANIMA E CORPO: UN GESU’ UMANO
“Io sono un bugiardo. Un ipocrita. Ho paura di qualsiasi cosa. Non dico mai la verità perché non ho abbastanza coraggio. Quando vedo una donna io divento rosso e mi giro dall’altra parte. Io la vorrei, ma non la prendo, per Lui [Dio], e dopo sono così fiero di me, ma il mio orgoglio distrugge Maddalena. Io non uccido, non rubo e non combatto, e tutto questo non perché non lo voglia, ma perché ho paura”
(L’ultima tentazione di Cristo, 1988)
Al centro di gran parte delle proteste nate da questo film c’è il personaggio di Gesù, interpretato da Willem Dafoe (che nell’anno d’uscita compiva proprio 33 anni). Il protagonista ci viene presentato come un essere in lotta con sé stesso, tormentato da una voce di cui non comprende l’origine ed intento, ironicamente, a fabbricare croci per i romani. Le prime immagini che abbiamo di lui rimandano già al destino che solo noi spettatori conosciamo: le braccia divaricate sulla croce, la schiena ricoperta di ferite (in questo caso autoinflitte); il viso ricoperto del sangue di un uomo crocifisso, schizzatogli addosso.
Il percorso di questo Gesù verso la morte e risurrezione è già avviato, come la narrazione filmica ci fa intendere, ma diversamente dai classici racconti biblici noi spettatori siamo incerti riguardo al come ci arriverà.
Il Gesù di Scorsese (e di Kazantzakis), infatti, non è un personaggio rassicurante, ma piuttosto un coacervo di contraddizioni, di incertezze, di paure e di difetti. Incerto riguardo alla propria natura (per buona parte del film questiona la paternità divina) e su come interpretare i segnali che riceve e gli avvenimenti che lo circondano, il Gesù di Scorsese si muove a tentativi nella speranza di compiere ogni volta il passo giusto, quello che lo porterà al compimento della volontà di Dio e, spera, alla pace. In ciò, viene coadiuvato dalle diverse idee che gli altri hanno riguardo al ruolo di Messia: Giuda (interpretato da Harvey Keitel) lo vorrebbe guerriero contro i romani, Giovanni Battista violento estirpatore del male morale. Dopo una prima fase di predicazione pacifica decide di cambiare rotta e assumere un atteggiamento molto più autoritario, ispirato da una visione di ambigua interpretazione. La sua strada, al contrario di quella di molti altri Gesù nella storia del cinema, non sembra spianata, e anche una volta assunta la consapevolezza di dover morire sulla croce cerca di rimandare il proprio destino, preferendo la morte in battaglia.
È stata però soprattutto “l’ultima tentazione” del titolo a far montare il caso mediatico. Nella mezz’ora di film finale, infatti, Gesù sceglie, su consiglio di un ‘angelo custode’, di scendere dalla croce prima di morire e di condurre una vita da uomo comune, con tanto di mogli e figli.
L’angelo custode si scoprirà poi essere Satana e l’esistenza vissuta solo una visione che Gesù respinge per “tornare” sulla croce e compiere il proprio destino, ma nonostante ciò lo sdegno collettivo è rimasto.
Nel prologo del libro, Kazantzakis, forse prevedendo le incomprensioni che sarebbero nate, racconta il proprio travagliato percorso di fede: “La mia principale angoscia e la fonte di tutte le mie gioie e i miei dolori dalla mia giovinezza in poi è stata l’incessante, impietosa battaglia tra lo spirito e la carne. (…) Amavo il mio corpo e non volevo che perisse; amavo la mia anima e non volevo che decadesse”. È dunque sulla propria battaglia personale tra spirito e corpo, tra sacro e profano, che lo scrittore basa la parabola del suo Gesù.
Nel riprendere all’inizio del proprio film alcune delle parole dell’autore, Scorsese ci comunica di star assumendo la stessa visione. Il percorso del profeta verso il sacrificio finale e supremo non ha senso se a compierlo è un personaggio che non ha incontrato ostacoli lungo il proprio percorso, che non ha vissuto a pieno la propria umanità prima che la propria divinità, che in sostanza non ha sofferto la perdita di ciò che avrebbe potuto avere. Da qui la natura fondamentale di quest’ultima sezione, che rappresenta il completamento dell’arco narrativo di questo Gesù, il quale non è costretto ad immolarsi per l’umanità, ma sceglie liberamente questo destino a seguito di un percorso spirituale estremamente accidentato e offre, come Kazantzakis riassume bene, “un modello supremo all’uomo che soffre”.
La sua è, insomma, la storia di un uomo alla ricerca della traiettoria della propria vita.
“Padre… Riprendimi con te. Voglio portare al mondo la salvezza! Sii felice del mio ritorno! Accoglimi, padre, voglio essere tuo figlio! Voglio pagare il prezzo! Voglio essere crocifisso e voglio risorgere! Voglio essere il Messia!”
(L’ultima tentazione di Cristo, 1988)
POOR JERUSALEM: UNA GALILEA NEL CAOS
A questa rappresentazione molto più terrena di Gesù si accompagna una visione non idilliaca dei territori in cui la storia del profeta si consuma. La Palestina che Scorsese ci riporta è una terra lacerata da lotte intestine e contro l’oppressore romano, un contesto che è impossibile eliminare da qualsiasi adattamento dei Vangeli ma che forse mai come qui ci viene restituito nella propria violenza.
Il percorso spirituale di Gesù si intreccia sin dall’inizio con le politiche del suo paese, in primis per il legame con Giuda, membro di un’organizzazione ribelle, e in secondo luogo perché il ruolo autoimpostosi di “Messia” oscilla continuamente tra lo spirituale e il politico. Le diverse interpretazioni della figura messianica sono ben racchiuse da due figure in particolare.
La prima è quella di Ponzio Pilato (interpretato da David Bowie). Durante il processo di Gesù, questi assume le funzioni di un burocrate in atto di giudizio, e si approccia al protagonista come a un qualsiasi rivoltoso, lasciando intendere che il colloquio sia per lui routine (“Abbiamo un posto anche per te, sul Golgota. Lassù ci sono già 3000 teschi, forse anche di più”). Non prova fascinazione per la sua figura o interesse per i suoi metodi, perché, come afferma lui stesso, “Non ci importa il modo in cui vuoi cambiare le cose. Non vogliamo che cambino, tutto qui”. Gesù viene dunque giudicato come una figura il cui intervento è prettamente politico, capace di incitare alla rivolta e capovolgere le strutture della società.
La seconda figura è quella di San Paolo, che appare nella parte finale. Il protagonista lo incontra mentre sta raccontando la sua versione della vita del profeta, maggiormente aderente alla versione evangelica (crocefissione seguita da risuscitazione). Quando Gesù smentisce i fatti da lui raccontati, il predicatore dimostra comunque di voler riferire la propria verità perché è quella “di cui la gente aveva bisogno, quella a cui voleva credere”. Il ruolo di Gesù secondo Paolo, dunque, è quello di guida spirituale, di fonte d’ispirazione che possa dare conforto alla popolazione. Poco importa se questa visione sia reale o meno: il Messia per Paolo non è una persona in carne ed ossa ma un simbolo che può piegare a suo piacimento per dare speranza al popolo.
I luoghi e gli eventi, anche quelli più straordinari e simbolici, lungi dall’avere la patina luminosa solitamente assunta dai prodotti tratti dalla Bibbia (specialmente quelli italiani), o la natura da kolossal dei film americani del cinema classico, vengono rappresentati in tutta la loro crudezza e natura spoglia, con una fotografia coadiuvante che mette in risalto il rosso del sangue, elemento ricorrente e fondamentale.
Il viaggio di Gesù, così, pur essendo costellato dall’iconografia cristiana tipica (i miracoli, le stimmate, i serpenti, il fuoco…) non assume dimensioni epiche o gioiose, ma piuttosto un tono inquietante e cupo perfettamente in linea con lo stato d’animo del protagonista e il contesto socio-storico. L’esempio più evidente di questa trasformazione delle icone religiose, assunte come positive dalla Chiesa ma dotate in realtà di una loro dimensione concreta molto più perturbante, è la scena in cui, riprendendo un’immagine del cattolicesimo controriformista (L’immagine-Cristo, Giammario Di Risio), Gesù si sfila il cuore dal petto e lo mostra ai propri discepoli. Una scena che, grazie anche alla musica e alla scelta delle luci, non sfigurerebbe in un film horror.
A questi elementi si aggiungono poi alcune (probabili) invenzioni di Scorsese che contribuiscono a ibridare le icone classiche col tono molto più terreno della pellicola: durante l’ultima cena il vino si trasforma davvero in sangue, colando poi sul pane; Gesù e Maddalena (interpretata da Barbara Hershey), a seguito della mancata crocefissione, ricreano l’iconica Pietà di Michelangelo, in una situazione che terminerà poi in un rapporto sessuale.
La Palestina de L’ultima tentazione di Cristo non è molto distante, così, dalla New York di Taxi Driver (1976) o di Quei bravi ragazzi (1990), popolata da figure poco raccomandabili e divorata dalla violenza, dalla corruzione e dalla politica. Non molto distante, insomma, dalla Little Italy dell’infanzia del regista.
CONCLUSIONI
Su L’ultima tentazione di Cristo si potrebbero spendere tante altre parole: non abbiamo avuto modo ad esempio di parlare della meravigliosa colonna sonora di Peter Gabriel, uno dei pochi aspetti riconosciuti come positivi già all’epoca dell’uscita, né dei personaggi secondari. Dimostrazione, questa, di quanto in realtà il film possa offrire, una volta scrostata l’aura scandalosa e superate le incertezze relative ad una visione molto più tetra delle vicende bibliche con cui il pubblico italofono sarà entrato a contatto almeno una volta.
Certo, non è un film perfetto (eccessivamente verboso in certi punti, con alcune interpretazioni non del tutto centrate, a volte incapace di nascondere dietro al proprio minimalismo la scarsità di mezzi). Forse, però, è proprio questa natura semi-riuscita ad affascinare: nella sua imperfezione è una dimostrazione della capacità adattativa e della maestria del regista, oltre che dell’enorme passione che lo ha spinto, alla fine, a portarsi a casa un eccellente risultato partendo da premesse affatto rosee. Alla fine vien da sorridere anche a noi assieme al protagonista, pensando che una visione simile esista, grazie alla fermezza di Scorsese e alla sua fede in un’idea: la perseveranza umana nella battaglia contro la sofferenza.
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