Dal 23 settembre al 1 ottobre 2023 si è svolta la 19a edizione del Lucca Film Festival, ecco la nostra classifica di tutti e 12 i film del concorso lungometraggi:
12 – Homeland (2023) di Bruno Gascon (Voto: 4)
In un Paese piegato da una feroce dittatura, un uomo cerca di organizzare un movimento d’insurrezione che restituisca i diritti umani ai cittadini. [sinossi]
Una produzione tutta portoghese cerca di mettere in scena un futuro distopico dove Orwell è mescolato a tutto ciò che può concernere il cinema sui totalitarismi; in un classico caso come questo dove la produzione è a bassissimo budget e deve sacrificare il lato spettacolare del racconto, il film dovrebbe necessariamente diventare un film di personaggi, con un coinvolgente lavoro di scrittura sui caratteri piuttosto che sulle ricostruzioni sceniche. Il film di Gascon è pigro sotto entrambi i versanti: si abbassano i gradi d’indulgenza per le location artigianali e a tratti posticce, ma se la caratterizzazione massima riservata al villain è il rapporto sessualmente prorompente che ha con la compagna, c’è ben poco da salvare…
11 – Ararat (2023) di Engin Kundağ (Voto: 6)
Dopo essere stata accusata di aver volontariamente causato un incidente d’auto, la giovane Zeynep scappa da Berlino e si rifugia a casa dei genitori in una cittadina turca ai piedi del vulcano inattivo Ararat. Il piccolo nucleo familiare sarà stravolto dall’aggressività sessuale della figlia. [sinossi]
Nonostante la convinzione “tempi lenti = cinema d’autore” e le piccole ingenuità di un debutto al lungometraggio, il film riesce a mettere in scena la repressione sociale e culturale turca sulle donne grazie a una ragazza con il potenziale esplosivo di un vulcano quiescente. In realtà tutto il film è un magma ribollente che potrebbe detonare da un momento all’altro: affascinante, ma anche un piccolo autogol; resta il grande amaro in bocca per i tempi gestiti non sempre al meglio.
10 – L’incidente (2023) di Giuseppe Garau (Voto: 6)
Marcella è in difficoltà: il marito è in punto di morte e la figlia si è gravemente ferita a seguito di un incidente causato dalla stessa madre. Come riuscire ad andare avanti quando tutto sembra remarti contro? Lei ha una soluzione: comprare un carro attrezzi e cercare di guadagnare soldi con metodi tutt’altro che ortodossi… [sinossi]
Farsi spazio in un mondo corrotto. Abbassarsi al livello di chi ti vuole schiacciato, a testa bassa: un concetto forte con una trasposizione semplice, un carro attrezzi e una ragazza che riempie l’immagine lasciando lo sfondo sempre fuori fuoco e ampliando il senso di oppressione, tanto suo quanto della Torino che la circonda fatta di cittadini-spettri occupati solo a predire finali infausti. La produzione quasi indipendente pone necessari paletti alla completa riuscita del progetto, come il mancato approfondimento psicologico della protagonista o la reiterazione di espedienti narrativi rasenti il tedioso, però i dubbi morali con cui lascia lo spettatore dovrebbero essere sempre più frequenti nel cinema italiano: fa piacere ritrovarli in un film girato in poco più di una settimana e che merita tutto il supporto possibile, dando vita a una specie di high concept indipendente che lascia trasparire tutto il fiorente talento del giovane Garau.
9 – Hounds – Les Meutes (2023) di Kamal Lazraq (Voto: 6,5)
Casablanca: il padre Hassan e il figlio Issam vivono alla giornata lavorando per la piccola criminalità. Una sera, la richiesta di rapire un uomo dà inizio a una catena di imprevisti nei bassifondi della periferia operaia della città… [sinossi]
Fresco del Premio della giuria nella sezione Un certain Regard di Cannes 76, Les Meutes ragiona sui peccati dei padri che ricadono sempre sui figli, peccati che non possono essere sciacquati via nemmeno da una doccia purificatrice perché gli scheletri verranno sempre allo scoperto. La scrittura è appesantita dai vari simbolismi che (s)velano il carattere metaforico-programmatico del film, dove l’allegorismo prende il sopravvento su una narrazione potenzialmente più avvincente e sorprendente: nulla di tragico, il lato tecnico è indiscutibile ed è difficile levarsi dalla mente i volti dei protagonisti.
8 – The Cage Is Looking For A Bird (2023) di Malika Musaeva (Voto: 6,5)
Yaha e Madina sono molto legate, entrambe covano il sogno di lasciare il loro piccolo paesino ceceno una volta conseguito il diploma. La stessa libertà è agognata anche dalla sorella maggiore Heda, che però deve fare i conti con la probabilità che le venga sottratto il suo unico figlio a causa della tradizione del paese. Il film segue quindi le vicende delle tre protagoniste in cerca di una vita vera nel mondo reale. [sinossi]
Musaeva fa parte della nuova schiera di registi russi esordienti aventi come mentore Aleksandr Sokurov e addirittura deve ancora completare il corso post-laurea ad Amburgo: si punta più in rispetto a Garau e non sempre è un bene, lasciando a più tratti che sia l’estetizzazione a prendere il sopravvento – a partire dal vezzo del 4:3 – e specialmente mostrando grande reverenza nei confronti del maestro russo, di cui cerca (a volte) goffamente di mantenere lo stile senza avere medesima esperienza dietro alla camera né mano in fase di scrittura. Dando una lieve dritta al linguaggio visivo e maturando di penna, non c’è dubbio che ci si trovi di fronte a una regista dal futuro promettente e dal coraggio stimabile, sia per il gioco autobiografico compiuto sull’ambientazione che ci ricorda a gran voce la sua dissidenza dalla madrepatria (il film si svolge presumibilmente alla fine della Seconda guerra cecena, ai tempi dell’adolescenza di Musaeva, quando la Cecenia era tornata sotto il controllo federale russo e la famiglia della regista era fuggita dal Paese), ma anche per l’aperta denuncia verso il patriarcato russo che segna l’alienazione del femminile ripresa anche dal titolo, costruendo una gabbia metaforica che Musaeva ha ben conosciuto in passato e che ora, come fosse un processo d’esorcizzazione, decide di affrontare a viso aperto. Ammirevole.
7 – The Feeling That the Time for Doing Something Has Passed (2023) di Joanna Arnow (Voto: 6,5)
La trentenne Ann vive a New York ed è dedita al grande piacere sessuale della sottomissione: alternando la sua routine fra BDSM, lavoro aziendale e la litigiosa famiglia ebrea, la donna cerca di capire qualcosa in più se stessa e delle relazioni che coltiva. [sinossi]
La regista Arnow ha prodotto, diretto, sceneggiato, montato e interpretato il film: è un esordio e si vede, sotto molti aspetti è molto acerbo, ma il rapporto di sudditanza sessuale che paradossalmente si ribalta dal punto di vista psicologico, in cui è lei a soggiogare i compagni, convince soprattutto per l’acume e il cinismo con cui Arnow prende controllo della scena e del progetto in toto. Il finale riprende il titolo con un beffardo taglio di montaggio che enuclea concettualmente tutto ciò che abbiamo visto negli 80 minuti precedenti. Di certo interessante.
6 – Mami Wata (2023) di C.J. ‘Fiery’ Obasi (Voto: 7)
Mami Wata è la divinità sirena del villaggio di Iyi, venerata dagli abitanti e mediata dalla guaritrice Mama Efe. La figlia Zinwe e la sua protetta Prisca dovranno escogitare un piano per riportare in alto il nome di Mami Wata, profanato dal tentativo del ribelle battagliero Jasper e del sovversivo Jabi di prendere il controllo del villaggio. [sinossi]
Che bello quando il women empowerment non è artefatto, ma ha un senso tutto suo: il folklore (di un Popolo) e il progresso (del femminile) prima si scontrano e poi si mescolano all’interno di una cromatura b/n talmente dura da sembrare fluo (miglior fotografia all’ultimo Sundance). Poche cose, ma narrate e inscenate in maniera decisamente originale.
5 – After (2023) di Anthony Lapia (Voto: 7)
Parigi, discoteca: adolescenti, adulti, proletari, borghesi e aristocratici ballano a ritmo di techno: Félicie conosce Saïd e lo invita a casa dopo la serata, dove inizia uno scambio di battute in cui ciascuno dichiara la sua visione del mondo. [sinossi]
In appena 69 minuti il film costruisce il suo interstizio di intimità riproponendo quel cinema tattile à la Philippe Grandrieux, dove corpi ripresi con filtro grana si muovono a ritmo di techno su sfondi evanescenti che accentuano la sensazione di bidimensionalità, costruendo un microcosmo notturno che è spazio di libertà e di condivisione. Le differenze di classe svaniscono, così come quelle generazionali, c’è spazio per confrontarsi sugli approcci alla lotta sociale, da quello più battagliero a quello più lassista, ma sono battute consapevoli di avere il peso di una foglia ed essere destinate a volare via, disperdendosi nell’aria non appena la luce accecante del giorno sveglierà tutti da quel piccolo sogno a occhi aperti.
4 – Time Addicts (2023) di Sam Odlum (Voto: 7,5)
Denise e Johnny hanno un debito con il loro minaccioso spacciatore e per saldare i conti accettano di rubare una borsa all’interno di un deposito in rovina. I due non sanno però che ad accoglierli ci sarà un misterioso psicopatico, da cui l’unico modo per fuggire è fumare una nuova droga che innesca viaggi nel tempo.
Gli amanti della fantascienza avranno un nuovo gioiellino da coccolare: la tradizione sci-fi sotto allucinogeni di Philip K. Dick incontra il time travel frenetico degli Spierig Brothers (Predestination), ragionando intelligentemente e con spirito talvolta dissacrante sui rapporti familiari, ribaltando continuamente le aspettative (dello spettatore) e i punti di vista (dei personaggi). La cgi è usata con parsimonia e Odlum, qui al suo esordio, dà prova di un’invidiabile padronanza dei mezzi. Time addicts è una boccata d’aria fresca per la fantascienza a basso budget contemporanea.
3 – Sasha (2023) di Vladimir Beck (Voto: 8)
La quindicenne Sasha e il padre non si vedono da tanti anni, condizione che causa continue sofferenze alla ragazza che decide di radersi i capelli in gesto di ribellione,. Un giorno viene scambiata per maschio da due giovani della città, Mysh e Maxim, che la introducono nel mondo (fase) dell’adolescenza in cui Sasha dovrà fingere di essere un’altra persona.
Un’ottima prova del talento del russo Beck, che dimostra di saper affrontare con grande sensibilità l’argomento gender anche grazie a un’intensissima interpretazione di Anya Patokina: un film di corpi e sui corpi. Corpi androgini che a differenza di altri film non devono cercare la loro vera natura perché, forse, non ne hanno nemmeno bisogno, semmai la spinta propulsiva verso il futuro è alimentata dal desiderio di esplorare a fondo la propria sessualità, i rapporti carnali, l’Altro, in un coming of age che non sfrutta la facile carta del sensazionalismo ma sceglie di centellinare anche le musiche, presenti soltanto dove necessarie. C’è margine di miglioramento, ma Beck è un cineasta da tenere d’occhio categoricamente.
2 – The sea and its waves (2023) di Liana Kassir e Renaud Pachot (Voto: 8)
Per raggiungere una donna che è stata trasportata dall’altra parte del mare, la giovane Najwa e il musicista Mansour viaggiano verso Beirut immersi nel buio spettrale della notte e illuminati soltanto dal lume della luna piena che domina il cielo. Poco distante da loro c’è Selim, il custode di un faro che sta cercando di ripristinare l’elettricità nel quartiere. [sinossi]
Il lato visivo lascia a bocca aperta grazie a una Beirut notturna dai neri densissimi, forse epigoni del buio materico di Lost Highways, capaci di inghiottire qualsiasi cosa incontrino (c’è spazio per una sequenza quasi orrorifica) e spezzati soltanto dal rosso ipnotico della luna piena; ma il viaggio di Najwa e Mansour attraverso una Beirut sprofondante che fagocita anche i feroci criminali e la tenacia con cui il custode sta cercando di riportare luce nella città, hanno un valore inestimabile per il Libano che deve da anni far fronte ai flussi d’emigrazione per via della crisi economica, così come a quelli d’immigrazione dei rifugiati siriani che dallo scoppio della guerra nel 2011 costituiscono ormai un quarto della popolazione libanese. È vero, il film rischia il didascalismo e a volte un briciolo di autoreferenzialità, ma gli esordi nell’arthouse sono spesso delle masse amorfe e un pelo sbilenche su cui andare a lavorare con la cassetta degli attrezzi per aggiustare il tiro e sviluppare una poetica più consapevole. Io ci sto.
1 – Starring Jerry As Himself (2022) di Law Chen (Voto: 8)
Il film narra la storia del padre del produttore, Jerry, trasferitosi da Taiwan a Orlando ormai da molti anni. La polizia cinese lo chiama per comunicargli di essere il principale sospettato di un’indagine internazionale di riciclaggio di denaro, per la quale rischia l’arresto e l’estradizione nel Paese d’origine. Jerry allora inizia a collaborare con la polizia statunitense per venire a capo dell’indagine. Tuttavia, non tutto è come sembra… [sinossi]
La prima posizione è intercambiabile, ma quando ci si trova davanti a una commedia così geniale è giusto dare il meritato riconoscimento a un genere fin troppo bistrattato e tipicamente considerato meno alto per quanto riguarda i palmarès. Il film di Chen è un F for Fake dei tempi d’oggi che prende il tipico “tratto da una storia vera” e narra la realtà con la finzione, che è però anch’essa realtà per l’interprete e per ciò che ha vissuto (Starring Jerry as himself). Attore non professionista, figlio del produttore, truffato telefonicamente da due vermi che si fingevano (appunto) poliziotti: reagire alla finzione con la finzione. Un mise en abyme di finzioni, doppi, fiction, che rimane tuttavia documentaristico e ancorato alla realtà. La storia poi è struggente. Un bijoux che tutti dovrebbero conoscere.
I vincitori della XIX edizione del Lucca Film Festival:
- Premio della critica SNCCI con il patrocinio di AFIC: The sea and its waves – Liana Kassir e Renaud Pachot (Libano, Francia)
- Premio della giuria ufficiale: The Cage is Looking for a Bird – Malika Musaeva (Francia, Federazione Russa)
- Menzione speciale della giuria ufficiale: Ararat – Engin Kundag (Germania, Turchia)
- Premio della giuria stampa: Sasha – Vladimir Beck (Russia, Italia)
- Premio della giuria popolare: Sasha – Vladimir Beck (Russia, Italia)
- Premio della giuria studentesca: Sasha – Vladimir Beck (Russia, Italia)
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