ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOILER SUI FILM “L’ODIO” E “I MISERABILI” (2019)

Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete:”Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

Siamo nel 1995 quando al Festival di Cannes viene presentata un’opera che tratta di temi che potremmo decisamente definire caldi: stiamo parlando de L’odio (La Haine) di Mathieu Kassovitz. L’apertura è emblematica e predittiva: durante tutto il film lo spettatore ha l’impressione di precipitare. Questa impressione non è convogliata solamente dal ticchettio di un orologio che talvolta compare ricordando a chi guarda lo scorrere delle ore, ma anche dall’andamento sincopato delle azioni dei protagonisti.

Vinz, Hubert e Said sono tre amici provenienti dalla banlieue di Parigi. Nel loro quartiere non si parla d’altro che degli scontri avvenuti il giorno precedente con la polizia in seguito ai quali un sedicenne, Abdel, è rimasto ferito e lotta tra la vita e la morte. Vinz ha trovato una pistola persa da un poliziotto e la porta con sé giurando di vendicarsi se il ragazzo ferito morisse. Si apre così un dibattito, su cui si basa tutto il film, tra lui e Hubert, il quale sostiene che “l’odio genera odio”. I tre passano la giornata girovagando per la periferia, poi si spingono fino a Parigi dove vengono prima picchiati dalla polizia, poi aggrediti da un gruppo di naziskin, che Vinz riesce a mettere in fuga minacciando di usare la pistola e riuscendo a trattenere uno degli aggressori. A questo punto Hubert incita l’amico a uccidere il naziskin, “uno dei loro” per pareggiare i conti: infatti i tre hanno da poco appreso della morte di Abdel. Vinz consegna la pistola a Hubert e i tre stremati fanno ritorno a casa. Ed è qui che, inaspettatamente, lo spettatore, colto di sorpresa, assiste a quello che sperava di aver evitato per tutto il film.

Il tema delle periferie parigine non è certo caro solo a Kassovitz: un’altra opera magistrale ma ben più recente che si è guadagnata il premio della giuria di Cannes e la nomination agli Oscar come miglior film internazionale è I miserabili (Les Misérables) di Ladj Ly del 2019.

Ly decide di adottare una prospettiva diametralmente opposta a quella de L’odio: sono sempre tre i protagonisti, ma sono poliziotti. In questo caso lo spazio è ben delineato: lo scenario è quello della città di Montfermeil, sempre nei pressi di Parigi. L’agente Ruiz è appena entrato nella brigata anticrimine formata da Chris, detto “il porcellino”, e Gwanda. Ruiz si trova a essere testimone degli abusi di potere della polizia e dei legami che questa stringe con i capi locali per mantenere l’ordine. I tre si ritrovano sulle tracce di un leoncino rubato da un circo. È Issa, un ragazzino, ad aver preso il cucciolo. I tre poliziotti lo trovano, ma durante l’operazione Gwenda spara un colpo con la flash ball che finisce per ferire Issa al viso. Le vicende che si susseguono portano all’esplosione di una violenza inaudita: questa volta sono i ragazzini, gli amici di Issa, guidati dallo stesso, che per vendicarsi tendono una trappola ai tre.

Ly, come Kassovitz, decide di lasciare il finale aperto. Lo spettatore rimane senza fiato, ma con diversi spunti di riflessione.

Sin dagli anni ’70 i grandi nuclei urbani francesi sono scenario di scontri tra la polizia e i cosiddetti banlieusards, ovvero gli abitanti delle aree periferiche delle città. Le rivolte sono perlopiù innescate dai giovani insofferenti per l’esclusione sociale e il comportamento estremamente violento della polizia. Negli anni ’90 il timore dei governi francesi di vedere diventare le proprie periferie dei ghetti diventa reale ed è proprio da questi scontri che i due film prendono spunto.

Anche I miserabili è un titolo parlante: se nell’opera di Kassovitz sono le feroci ostilità fra le controparti a dettare il ritmo del film, quella di Ly è caratterizzata da uno sguardo più ampio, talvolta documentaristico, il quale presenta le dinamiche di quartiere e dà voce ai nuovi “miserabili”, giovani ragazzi abbandonati a loro stessi che giocano tra il cemento fatiscente.

La prima differenza stilistica evidente è che Kassovitz sceglie un bianco e nero spietato, che fa percepire la luce accecante delle enormi distese di cemento delle banlieue e rende l’immagine ancora più sporca e cupa e allo stesso tempo quasi allucinatoria. Ly invece sceglie il colore dando un taglio quasi documentaristico alla sua opera, quasiché stesse osservando degli animali selvatici, prede e predatori, nella giungla di cemento della periferia.

Entrambe le opere prestano attenzione a descrivere attraverso le immagini dall’alto la plasticità delle architetture, quasi volendo fare riferimento al celebre capitolo di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo intitolato Parigi a volo d’uccello. L’ambiente, sembrano voler dire i registi, ha un ruolo fondamentale nelle vite delle persone. Palazzoni di cemento anonimi, macerie, case fatiscenti, appartamenti claustrofobici. Ma anche punti di incontro e di socialità: tetti, mercati, parchi. Viene mostrata la realtà dei logements sociaux, le case popolari moderniste che dagli anni ’70 stipano migliaia di famiglie fuori dal cuore di Parigi.

Il senso di appartenenza e l’identità  hanno un ruolo decisivo nel creare una divisione netta tra i gruppi: la difesa del “noi” contro “loro” determina, in entrambe le opere, l’impossibilità di comunicare e l’alternanza tra vittime e carnefici. È impossibile schierarsi. Lo spettatore si trova continuamente disorientato, prima parteggia per i banlieusards poi per i poliziotti, e così rimane in un limbo fin oltre la fine delle due pellicole.

Kassovitz e Ly ricordano al mondo che anche in una delle aree più ricche del pianeta l’esclusione sociale, la povertà e l’impossibilità di realizzarsi persistono e soprattutto che il problema di una società che precipita “non è la caduta, ma l’atterraggio”.

Questo articolo è stato scritto da:

Micol Schiavon, Redattrice