Riflettere su Lo specchio di Andrej Tarkovskij (1975) è una condizione necessaria affinché l’oggetto, “lo specchio”, e dunque il film, sussistano. E infatti il film comincia con un televisore che non funziona, così come a non funzionare è il linguaggio del ragazzo balbuziente della prima celebre sequenza.

La trama è ridotta all’osso: siamo in Unione Sovietica e in una campagna sperduta sta per iniziare un viaggio a partire dalle memorie di Aleksej, dalla sua infanzia con la sorella e la madre Natal’ja. Il cast è composto principalmente da Margarita Terekhova, Filipp Yankovsk e Ignat Daniltsev.

legami affettivi e i sentimenti vengono visti insieme ai legami naturali, istintivi: in una parola, la famiglia.

Il tema di fondo riguarda il rapporto tra natura ed essere umano, passando dunque dalla madre delle madri, la natura stessa come fonte di vita, alla madre umana, che insieme al padre simboleggiano gli “errori” e orrori che si tramandano e ripetono di generazione in generazione.

Il senso di colpa è contemporaneamente un dono e una condanna della vita per Tarkovskij e sembra necessario intraprendere un viaggio esistenziale interiore col fine di fare i conti con sé stessi in quanto esseri viventi. Un po’ come per Leopardi nella figura dell’Islandese.

Si parte con una terapista che affianca un giovane balbuziente. Ancora una donna, madre, che somiglia così tanto alla figura della moglie da confondere lo spettatore continuamente, riporta nella mente di Aleksej il vivere circondati da una natura inquietante: a tratti ribelle e rigogliosa, prepotente, come nel contrasto tra le fiamme e la fitta pioggia nella sequenza ambientata nella casa dell’infanzia verso l’inizio; a tratti fragile, spoglia, che mostra e riflette tutto il dolore e la malinconia come in uno specchio, agendo di vita in vita, nel divenire della storia che forse non diviene così tanto.

L’educazione, in qualche modo, è uno dei mezzi con cui attraversiamo i ricordi mischiati e tenebrosi di quelli che probabilmente sono papà e mamma Tarkovskij insieme con quelli del giovane e anche adulto cineasta. Un altro mezzo è la casa, che rappresenta il primo ricordo, come anche il viaggio della crescita; la prima è in mezzo alla campagna e simbolo dell’essenza, circondata dal fuoco, dalla terra e dall’acqua, tutti elementi ricorrenti in questa e in altre opere dello stesso autore. Questa si contrappone alla casa-studio vuota, che attraverso lente carrellate (ad esempio verso la finestra) muove la trama nell’immobilità dell’azione e tuttavia nella fluidità della poesia. Quest’ultimo binomio è tipico del regista e qui si rende più esplicito nel linguaggio stesso, attraverso i testi scritti dal padre Arsenij Tarkovskij e per mezzo di riferimenti nella “mostrazione” di un ragazzino che sfoglia le pagine di un libro in semi soggettiva. Certamente un approccio semiotico ci direbbe di non poter identificare completamente figure empiriche con figure testuali, ma questo film sembra una vera e propria confessione, un album fotografico della vita del regista, condito dalla sua poetica sempre più riconoscibile.

Il punto di vista, lo sguardo in senso stretto, è continuamente difficile da circoscrivere. Il padre del protagonista, ad esempio, non si vede quasi mai, se non nella scena del ritorno dal servizio militare e in un paio di flash back; la sua voce è incredibilmente intima e personale in tutte quelle scene in cui Natal’ja, nel ruolo che la rende soggetto e oggetto principale della macchina da presa nella veste di un’ assolutizzata e idealizzata madre e/o moglie (del personaggio identificato ipoteticamente come il Tarkovskij regista) sono di fronte allo specchio e si rivolgono contemporaneamente all’uomo presente, a loro stesse e, con una sorta di propagazione trascendentale del messaggio all’interno di un’atmosfera straniante e quasi divina, all’intera razza umana.

Nonostante l’intreccio sapientemente costruito tra ricordi intimi della gioventù e dell’età adulta, tra storie di guerra e di cultura sovietica percepite individualmente e collettivamente, è la consapevolezza nell’utilizzo della macchina da presa a mostrare la maturità di Tarkovskij, anche metaforicamente rispetto al tipo di racconto. Il colore si alterna fin da subito al bianco e nero disorientandoci. Emblemi e immagini, fotografie, specchi e tanti altri simboli anche un po’ nascosti (pensiamo al latte o alle uova), sono sempre una delle forme di espressione più utilizzate. Le soggettive a volte, con movimenti lenti, sono difficili da scovare e sembrano espressione di qualcosa di più ampio di un singolo sguardo, qualcosa di più impersonale ed esperienziale, senza perdere quella sensazione di intimità. I movimenti di macchina sono miratissimi e calcolatissimi e, con una narrazione così (de)strutturata, rappresentano l’altro mezzo evidenziante la riconoscibilità di un autore (implicito nel testo) maturo ed evoluto pur restando fedele alle tematiche precedentemente trattate in Solaris (1972) e che ritroveremo anche in Stalker (1979).  Anche le musiche mettono in risalto le contraddizioni tra la gioia e il dolore del dare la vita ad una creatura, ricordando anche che in dono essa riceve conseguentemente la morte. Inoltre, esse suscitano ora nostalgia, ora malinconia e soprattutto un grande senso di angoscia e di tensione.

Il culmine del simbolismo e della tensione intorno a tutte queste tematiche si raggiunge attraverso la sequenza dell’immagine della donna, chiunque essa sia, quasi nuda, sospesa, celeste (con annessi gli sguardi in macchina precedenti a dir poco inquietanti e stranianti).

A questo punto, ci viene in soccorso un noto pittore, come accadde (breve digressione) quando per la prima volta vidi con un amico questa scena, e qualcosa, in particolare a lui, sembrò familiare.

Certo, Giovanni Segantini tratta il tema della maternità e della sua mancanza con una fortissima critica di stampo soprattutto sessuale, che forse ricorda più l’atteggiamento puritano in parte ripreso, in parte parodiato dagli slasher degli anni ‘70. Inoltre, l’idea nasce da un forte trauma dovuto alla terribile mancanza della madre biologica. Tuttavia, questo non esclude ed anzi si collega benissimo all’approccio più esistenzialista del regista sovietico. Basta lasciar parlare le immagini (e anche i titoli dei dipinti ci dicono qualcosa).

L’immagine di cui si parlava, della donna sospesa in aria, potrebbe essere un riferimento ad un dipinto: Il castigo delle lussuriose (1891).

L’immagine di cui si parlava, della donna sospesa in aria, potrebbe essere un riferimento ad un dipinto: Il castigo delle lussuriose (1891).

Ci sembra doveroso riportare, con altrettanta curiosità, l’immagine del dipinto di poco successivo (1894) e dello stesso autore: Le cattive madri.

Per Segantini essere madre è un dovere a cui non si può venir meno ed è del tutto coerente con la visione pessimistica del film trattato, che in qualche modo cerca di analizzare i legami affettivi e di spiegarne la fallibilità continua e tuttavia anche la necessità per natura, come una sorta di imposizione. Infatti, è centrale il tema della malattia, che per entrambi gli autori rappresenta un sintomo sia di un qualcosa di errato, come un campanello d’allarme, e insieme di un qualcosa di perfettamente prevedibile e previsto, voluto e necessario. L’uso dei colori (ora caldi, ora gelidi), l’atmosfera tetra e angosciante, il giudizio, sono solo alcuni degli elementi di giunzione e di collegamento tra Segantini e Tarkovskij in relazione alla distruzione dell’idea di maternità e di vita e al contempo, alla paradossale idealizzazione di questa come eternamente presente e incontrollabile.

Interessanti anche altri confronti più o meno espliciti e più o meno noti: con Pieter Bruegel il Vecchio (Cacciatori della neve, 1565) in una sequenza dedicata all’atteggiamento ribelle del padre del protagonista in relazione ad un momento in di addestramento mostrato in flash back con un rallenty incredibilmente dinamico, dirompente ed espressivo; e con Leonardo da Vinci (Ritratto di Ginevra de’ Benci, 1474) nel riprendere la raffigurazione di una donna anticonformista e ambigua.

Per il regista russo, tutto ciò che abbiamo visto probabilmente è sintetizzabile nella sequenza finale, con un montaggio surreale e fuori da ogni tempo, narrazione o logica lineare: al termine, infatti, troviamo un climax esplosivo quasi inaspettato di emozioni contrastanti, tra gioia e sofferenza, tra accettazione e tragedia del sentire, della nascita e della rinascita.

Si torna dove si è cominciato: alla natura, alla Russia (U.R.S.S.), alla campagna, all’acqua delle lacrime di Natal’ja (in risposta ad una domanda così semplice e così difficile); ai bambini, ad un urlo di gioia e di dolore che ricorda lo strazio di una donna stremata e di una nuova vita inconsapevole gettata in un ambiente ostile e mai scelto. Insomma, si torna alla colpa. Colpa che si ripete e che è sia dell’essere umano che della natura. Colpa che mette in discussione l’origine e il senso della vita, tra dono e condanna.

Questo articolo è stato scritto da:

Giovanni Piretti, Collaboratore