Immaginate di essere nati nel 1902 a Kiev da famiglia ebraica di origine lituana e lavorare per qualche anno nell’industria russa, non condividere l’ideologia sovietica e trasferirvi quindi in Germania, essere poi costretti a scappare a causa del regime hitleriano e approdare a Parigi, ricevere una chiamata da parte della Warner Bros. e volare a Hollywood, arruolarvi nell’esercito americano e supervisionare le riprese degli sbarchi in Normandia, per finire gli ultimi vostri vent’anni di carriera a girare vari Paesi in Europa. Beh, non so se l’etichetta di ‘cosmopolita’ sia sufficiente per descrivere Anatole Litvak, il regista trilingue a cui è stata riservata un’intera sezione durante la XXXVIII edizione del Cinema Ritrovato, intitolata Viaggi nella notte: il mondo di Anatole Litvak: quattordici film, dai più famosi come Anastasia, che rafforzò l’aura divistica di Ingrid Bergman, ai meno conosciuti come l’esordio No More Love, commedia-vaudeville del 1931 sul conflittuale rapporto uomo-donna, concettualmente abbastanza avanti sui tempi. Litvak si spense nel 1974 a Neuilly-sur-Seine, in Francia, e lungo i prolifici trentanove anni di carriera (quaranta film), che partirono all’epoca del muto come assistente e montatore di Abel Gance e G.W. Pabst per poi essere vissuti da globetrotter delle industrie cinematografiche, bisogna essere onesti, non rivoluzionò nulla. Litvak non era Rouben Mamoulian, per citare un altro regista naturalizzato statunitense (il primo ucraino, il secondo armeno) a cui il Cinema Ritrovato ha dedicato una sezione nella scorsa edizione, né gli renderebbe giustizia essere messo accanto a nomi come quello di Sergej Paradžanov (altra occasione d’approfondimento per i 5700 accreditati venuti quest’anno a Bologna da tutto il mondo). Tuttavia, appurato che nella filmografia di Litvak non troveremo mai un Dr. Jekyll and Mr. Hyde o un Le ombre degli avi dimenticati, per i più curiosi è un regista che merita comunque di essere approfondito perché come suggerisce saggiamente il titolo della sezione del festival, pur errando di anno in anno e di nazione in nazione, il suo cinema mantenne un’anima e una dignità che sopravvissero a crisi ideologiche, persecuzioni etniche, cambi di sistemi produttivi e arruolamenti nell’esercito: la vita come metafora di un viaggio nella notte. Un viaggio notturno, quello del cinema di Litvak, perché ad essere cupo era quello che si parava davanti agli occhi del suo autore, un viaggio che ha conosciuto gli orrori bellici, che ha visto la miseria, così come gli sfarzi delle grandi corti, che tra Rivoluzione russa e secondo dopoguerra ha dovuto decidere da che parte stare nella Storia, e che per questo ha attraversato crisi d’identità riflesse in quelle degli uomini e delle donne comuni dei suoi film. Non ci interessa se Litvak non fu un Lubitsch o un Capra, perché al di là delle piccole ma frequenti imperfezioni di sceneggiatura o di una poetica spesso di lana grossa, il regista scelse di accettare lavori con idee molto forti alla base e che trovavano il giusto compromesso tra tracce autobiografiche e descrizioni attente del contesto socio-culturale in cui si inserivano, sia quando il nome del regista compariva tra gli sceneggiatori (‘solo’ dieci volte in carriera), sia quando si trattava di scegliere scripts altrui.
Anatole Litvak è un regista conosciuto da una grande fetta di cinefilia ma meno dal pubblico più generalista, ed è un peccato, perché alcuni suoi film sono abbastanza completi (Decision Before Dawn, City for Conquest, The Snake Pit) e assieme ai meno riusciti compongono comunque un quadro le cui pennellate possono essere trovate ancora oggi in tanti lavori contemporanei: se non conoscete il cinema di Litvak e volete decidere quale film recuperare in base a film più recenti, non resta che addentrarsi brevemente all’interno di otto dei film selezionati dal Cinema Ritrovato. Curiosi di sapere a quali film che avete visto potrebbero assomigliare?
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Lilac (1932) / Basic Instinct (1992 – Paul Verhoeven)
Sceneggiato a sei mani da Anatole Litvak e due suoi collaboratori, Dorothy Farnum e Serge Véber, in francese il titolo prende il nome della protagonista, Coeur de lilas (Marcelle Romée), giovane prostituta sospettata di omicidio. Nel tentativo di raccogliere prove per la condanna, un ispettore di polizia (André Luguet) entra in contatto con la ragazza vestendo i panni di un umile operaio, ma fra i due scoppia l’amore. Lilac non è niente di più che il classico film di crimini e amori impossibili – e che commette anche l’errore di caratterizzare ben poco la protagonista – ma la struttura circolare, aperta dalla scena richiamata sul finale di un gruppo di bambini che gioca a guardie e ladri, ma dove nessuno vuole fare la guardia, racchiude in nuce il senso eversivo dell’intero film. Oltre ai chiaroscuri morali di una protagonista il cui nome richiama le grazie del lillà, quand’è tutt’altro che santa e santa e immacolata, Litvak utilizza anche i luoghi come simboli contro-sistemici, per esempio calando i personaggi nei cafés francesi del tempo, i luoghi di ritrovo delle persone queer emarginate dalla società. E se vi dicessi che non è folle vedere dei lasciti del film in un lavoro di sessant’anni dopo come Basic Instinct? Lilac ha la proto-femme fatale, un detective che se ne innamora e una storia di omicidio. D’altronde, cos’è il film di Verhoeven se non un aggiornamento dei noir classici, che sprigiona finalmente la carica erotica della femme fatale Catherine/Lillas in tutta la sua forza?
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Flight Into Darkness (1935) / Pearl Harbor (2001 – Michael Bay)
Il titolo originale è L’Équipage e in italiano ha mantenuto la traduzione letterale (L’equipaggio). Il soggetto, già trasposto al cinema sette anni prima da Maurice Tourneur, è tratto da un romanzo dello scrittore Joseph Kessel (suo lavoro è anche Bella di giorno) che compare in veste di sceneggiatore accanto a Litvak, inaugurando la prima di cinque collaborazioni: durante la Grande Guerra il capitano Thélis (Jean Murat) deve separarsi dall’amante Denise (Annabella, nome d’arte di Suzanne Charpentier) per partire per il fronte. Una volta in guerra diventa mitragliere del vero marito di Denise, il tenente Maury (Charles Vanel), col quale deve arruolarsi per una missione suicida che rispecchia i loro dilemmi interiori, divisi fra fraternità e amore, gelosia e sacrificio. Flight Into Darkness è uno dei film in cui Litvak marca di più l’utilizzo espressivo del montaggio, per esempio iniziando in medias res con i volti dei protagonisti in sovrimpressione, seguiti da uno stacco sul campo di battaglia e poi da una forte esplosione al fronte, più o meno speculare al finale, dove l’inquadratura smette di seguire Denise camminare in mezzo ai soldati e alle rovine, per spostarsi su di un crocifisso e chiudere facendo riecheggiare forti esplosioni di bombardamenti in lontananza. L’espressività della tecnica di Litvak, nel bene e nel male, va a braccetto con l’approccio smaccatamente retorico di molti suoi film, ma in ogni caso anche ne L’equipaggio è interessante notare il discorso autobiografico su di un essere umano diviso in due e sempre in preda a dubbi esistenziali, siano essi legati alla patria o all’amore. Per capire come un film degli anni ‘30 può agilmente battere in qualità un’opera uscita quasi settant’anni dopo, un gioco divertente potrebbe essere rivedere un film che richiama tantissimo il lavoro di Litvak, Pearl Harbour di Michael Bay. Non serve sottolineare quanto il triangolo amoroso di due aviatori americani con la loro amica d’infanzia calchi il plot di Flight into Darkness, ma Litvak con meno mezzi e meno risorse ha sfornato un film con più grazia e tragicità di un Bay mai così semplicistico e pomposo.
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Tovarich (1937) / Parasite (2019 – Bong Joon-ho)
Con Tovarich (“amico” o “compagno”) Litvak realizzò una delle sue screwball, il genere di commedia romantica emerso in America fra gli anni ‘30 e ‘40 e composto da situazioni assurde, dialoghi spesso spiritosi e personaggi eccentrici. Il regista è assente in sceneggiatura, affidata invece a Casey Robinson che ha adattato uno spettacolo teatrale popolare a Broadway di Jacques Deval. Il film segue le vicende di un ex principe e una granduchessa russi in esilio in Francia (Charles Boyer e Claudette Colbert), che fingendosi persone comuni diventano i domestici dei due viziati coniugi Dupont, tenendo però ben custodita la loro fortuna zarista. Tuttavia la squattrinata coppia russa non ha fatto i conti con un commissario bolscevico (Basil Rathbone) che si è messo sulle loro tracce, complicando il tranquillo pernottamento nella residenza Dupont. Litvak dimostra di trovarsi incredibilmente a suo agio con la satira, aprendo il film in una piazza affollata per la festa della presa della Bastiglia con i due esuli russi che chiedono cosa si stia festeggiando, dimostrando tutta la loro ignoranza. Nemmeno il popolo francese è chissà quanto più intelligente, come dimostra un parigino quando risponde “Ha qualcosa a che fare con la storia”. Il film continua tutto così, risparmiando ben pochi personaggi, con i reali russi che si iscrivono al sindacato dei lavoratori domestici e facendo piovere battute del calibro de “La grandezza della Francia sono i controlli burocratici sui carciofi”. Niente lotta di classe per Litvak, è chiaro, il socialismo soccombe schiacciato dal vecchio mondo e le coppie altolocate, pur perdendo privilegi, trovano comunque un nuovo posto nella società. Chissà però se Bong Joon-ho ha mai visto il film del regista ucraino, perché Parasite sembra proprio Tovarich ribaltato ed esportato in corea del sud ottant’anni più avanti: ad infiltrarsi in casa non sono più i nobili ma i poveri, quindi bisogna mettere da parte una buona fetta di commedia e spingere l’acceleratore sul thriller. La lotta di classe non può più essere evitata. Curioso, no?
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The Amazing Dr. Clitterhouse (1938) / Hit Man (2023 – Richard Linklater)
Insolitamente trasformato in italiano ne Il sapore del delitto, il film nasce dalle penne di John Huston e John Wexley (collaboratore abituale di Litvak) che adattarono l’omonimo thriller teatrale di Barré Lyndon. Lo psichiatra Clitterhouse (Edward G. Robinson) decide di studiare gli schemi comportamentali dei criminali con un metodo poco ortodosso: compiere lui stesso i crimini dopo essere entrato in una gang di fuorilegge, ma che fare quando deve studiare l’omicidio? Se prendete in considerazione la falsa identità come strumento per superare le barriere di classe, le maschere sociali sotto cui un uomo può nascondersi e l’ironia mai assente (come sul finale, quando il dottore sotto processo viene beffardamente dichiarato innocente per infermità mentale), non vi viene in mente Hit Man, l’ultimo lavoro di Richard Linklater? Il personaggio di Glen Powell rielabora in toto gli aspetti di Clitterhouse innestandoli in una rom-com (decostruita) dei tempi d’oggi: non sappiamo se poterla chiamare ‘eredità’, ma i semi di un’analisi sociale così attenta erano già ben piantati nel 1938.
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City for Conquest (1940) / Raging Bull (1980 – Martin Scorsese)
Arrivato in Italia col titolo de La città del peccato, John Wexley si occupò di curarne la sceneggiatura traendo ispirazione dell’omonimo romanzo del ‘36 di Aben Kandel. Il film, uno dei migliori di Litvak, narra del pugile professionista Danny Kenny (James Cagney) che è ormai sulla via del tramonto dopo essere diventato l’idolo del Madison Square Garden: la vista se n’è andata, così come la sua ragazza Peggie (Ann Sheridan), e il fratello minore Eddie (Arthur Kennedy) sta per compiere il suo esordio da pugile a New York. Come gesto d’amore, Danny aprirà un’edicola accanto al palazzo del debutto del fratello, in modo tale da ascoltare il concerto di musica classica che aprirà la tanto attesa serata. Come già anticipato, il film è fra i migliori di Litvak anche per la gestione dell’elemento femminile, con la descrizione del personaggio di Ann Sheridan che sigla una delle presenze femminili più toccanti e affascinanti del suo cinema. Qui il paragone è facile, se non addirittura scontato, ma i collegamenti con Martin Scorsese derivano (paradossalmente) già dal titolo italiano: cosa caratterizza il regista statunitense più di New York e del tema del peccato? L’elemento sportivo e il bianco e nero ci portano giustamente a Toro Scatenato, ma la scorsesianità del film di Litvak sta anche nella musica on-stage che descrive New York come una sinfonia (New York, New York), nel sottotesto del sogno americano e nelle occasionali pieghe gangsteristiche (arriveranno ovviamente le scommesse sulle partite di pugilato). Il Jake LaMotta di De Niro arriverà esattamente quarant’anni dopo, e chissà se Scorsese ha mai visto City for Conquest? Magari converrebbe tenere monitorato il suo profilo Letterboxd.
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The Snake Pit (1948) / Shutter Island (2010 – Martin Scorsese)
Il titolo, La fossa dei serpenti, è eloquente: la fossa è l’ospedale psichiatrico in cui è stata buttata Virginia (Olivia de Havilland), ricoverata per gravi sintomi di schizofrenia. La paziente non ricorda molto della sua vita passata ma pian piano la memoria verrà a galla, portandola a metabolizzare il suo difficile rapporto col padre e i diversi uomini incontrati lungo la sua vita. Al regista piacque la sceneggiatura di Millen Brand e Frank Partos che adattava l’omonimo bestseller semi-autobiografico di Mary Jane Ward, e il film gli valse anche la candidatura per miglior regista ai Premi Oscar del 1949. La fossa dei serpenti è considerata la prima esplicita rappresentazione hollywoodiana del complesso di Edipo: Litvak dimostrò la sua passione per la psicoanalisi già con Clitterhouse, ma in The Snake Pit riuscì a unire questo interesse con quello per il disturbo da stress post-traumatico, che nel corso della Seconda Guerra Mondiale conobbe coi suoi occhi durante il lavoro sul campo. Le memorie di Litvak trovano quindi spazio in quelle della protagonista magnificamente interpretata da Havilland, che rielabora i ricordi passati in chiave melodrammatica, mentre Litvak li rivive a tal punto da mettere in scena un ospedale psichiatrico terrificantemente simile a un campo di concentramento, e dove i pazienti vagano persi e spenti come deportati (memorabile il plongée che metaforizza l’ospedale come una vera fossa). PTSD, ospedale psichiatrico simil-Dachau, flashback di reminiscenze sopite, protagonista schizofrenico… che sia forse il caso di chiamare di nuovo in causa Martin Scorsese? Non serve precisare perché il Teddy Daniels di DiCaprio in Shutter Island condivida diversi punti di contatto con Virginia, ma anche (e soprattutto) con lo stesso Litvak. Vedere per credere.
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Decision Before Dawn (1951) / Valkyrie (2008 – Bryan Singer)
Dopo quindici anni di assenza dall’Europa, Litvak commissionò a Peter Viertel l’adattamento del romanzo ispirato a fatti reali di George Howe, Call It Treason, per creare il thriller noto in Italia con il titolo I Dannati: durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale il Terzo Reich è già vicino alla sua fine e il prigioniero di guerra tedesco ex infermiere della Lutwaffe, Karl Maurer detto Happy (Oskar Werner), viene assoldato dall’intelligence militare dell’esercito USA per infiltrarsi tra le file della Wehrmacht e spiare a favore degli Americani. Durante la sua attività di spionaggio tra le rovine delle città martoriate dal conflitto, incontrerà un secondo prigioniero tedesco, Rudolf Barth detto Tiger (Hans Christian Blech), con il quale proseguirà l’attività di collaborazione con gli Alleati contro quella che, almeno una volta, era la loro patria. Uno dei film più personali di Litvak e, perfettamente in linea con il titolo della sezione del festival, anche uno dei più cupi, cinici, tragici, che si apre con una fucilazione e si chiude con una fuga disperata. C’è di nuovo il tema della doppia identità, elemento costante nel cinema del regista cosmopolita, ma anche il conflitto interiore dell’uomo di fronte alla scelta tra lealtà e tradimento, tematica sentita visceralmente da Litvak, che fuggì dalla Germania nazista dopo aver lavorato nell’industria cinematografica tedesca, per poi girare un film di propaganda contro di essa. Anche in questo caso il collegamento a un film contemporaneo è automatico, ma come non poter pensare a Operazione Valkyria di Bryan Singer? Al film di Litvak manca soltanto il diretto riferimento al complotto ai danni del Führer del 20 luglio 1944, ma il colonnello Von Stauffenberg di Tom Cruise condivide la disillusione di Happy nei confronti del Terzo Reich, e sebbene ne I Dannati non si parli di assassinare Hitler, la decisione prima dell’alba che devono prendere i personaggi, pur con diversa magnitudo, è speculare a quella dei protagonisti del film di Synger. Goccia a goccia si scava la roccia, non era così il detto?
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Anastasia (1956) / Anastasia (1997 – Don Bluth e Gary Goldman)
Primo e unico film a colori di Litvak a comparire in questa lista, Anastasia è stato sceneggiato da Arthur Laurents (per intenderci, dobbiamo a lui il libretto del musical teatrale West Side Story) e da un punto di vista storico è probabilmente uno dei lavori più importanti di Litvak, sebbene non tra i più riusciti. Il regista volle infatti cimentarsi nella rilettura (o invenzione, per meglio dire) della storia dell’unica presunta superstite della famiglia dello zar Nicola II di Russia, Anastasia Romanov: nel 1928, per assicurarsi la fortuna zarista custodita nella Banca d’Inghilterra, il generale russo dell’Armata bianca in esilio Bounine (Yul Brynner) istruisce la nomade Anna (Ingrid Bergman) a impersonare la giovane Anastasia, al fine di far credere alla nazione che lei sia in realtà la figlia dello Zar. Ma se Anna fosse davvero Anastasia? Il film, che risollevò la carriera di Bergman facendole vincere l’Oscar per migliore attrice protagonista dopo la parentesi finita malissimo con Rossellini, tratta il tema della doppia identità (che sorpresa!), non più tra due nazioni, ma tra ciò che dell’uomo è vero e ciò che è falso. Questi elementi per Litvak sono centrali nella formula di costruzione del potere, che assume la forma di uno spettacolo teatrale fittizio la cui recita comincia a essere presa per vera (si citerà anche Stanislavskij: “Se un attore si crede il suo personaggio, licenzialo!”). In questo è calzante l’impostazione teatrale del racconto, quasi tutto girato in lussuosi interni, risaltati dai colori sgargianti del technicolor. Se invece pensiamo alla scena in cui la nonna di Anastasia riconosce in Anna la vera nipote per via di un colpo di tosse (Anastasia tossiva spesso quando aveva paura), capiamo come la sceneggiatura lasci molti dubbi, soprattutto nella seconda parte, dove troviamo parentesi comiche difficilmente comprensibili, e anche a causa di una parabola pro-zar nemmeno troppo implicita. Quindi potrebbe tornare utile rivedere l’omonimo film d’animazione del 1997 diretto da Don Bluth e Gary Goldman, dove sempre con l’espediente dell’amnesia si cerca nuovamente di inventare un’ipotetica vita alternativa di Anastasia, lasciandola sopravvivere all’esecuzione della famiglia Romanov. I problemi, più o meno, sono sempre gli stessi, ovvero la rappresentazione semplificata e romanticizzata della rivoluzione bolscevica e un sottotesto politico che fatica a mettere in discussione il potere zarista, che nel film d’animazione è enfatizzato dal Rasputin-stregone del male, la vera ciliegina sulla torta. Il film di Litvak, almeno, ci risparmia la confusione degli elementi architettonici, dal momento che il film animato non sapeva nemmeno ben distinguere l’architettura della Russia imperiale da quella dell’Europa occidentale dell’epoca. Anastasia preserva comunque un certo fascino per gli anni in cui è stato girato, acquisendo un’importanza storica rilevante tanto per la svolta della carriera di Bergman, quanto per l’approccio di Litvak al cinema a colori. Una visione non è di certo sacrilega.
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