Il documentario del 2014 di Steve James sulla vita del critico cinematografico Roger Ebert dona un volto umano ad una figura che ha superato ogni tipo di pregiudizio.
Per anni il grande pubblico statunitense ha associato la figura del critico cinematografico ad una sola persona, in grado di risultare il perfetto equilibrio tra conoscenza della storia del cinema, competenza nell’esposizione delle proprie idee, capacità di appassionare persone di ogni rango sociale. Questa persona era Roger Ebert, che ha influenzato la critica cinematografica tutta negli ultimi 50 anni.
Il documentario Life Itself, realizzato da Steve James, tratto dall’autobiografia omonima di Ebert del 2011 e presentato al Sundance e a Cannes nel 2014, pochi mesi dopo la morte di Ebert, ripercorre tutta la vita del critico Premio Pulitzer sia nel privato che nelle tappe evolutive della sua carriera fino agli ultimi anni segnati dalla malattia e dall’incombenza della morte. Racconta il capitolo finale di un essere umano che ha dedicato tutta la sua vita al cinema, al punto tale da restare aggrappato a questa passione fino alla fine. Pur non essendo più in grado né di parlare né di deambulare autonomamente, restava informato su ogni nuova uscita (anche se come ci dice sua moglie Chaz nel documentario, la lontananza dalla sala era un dolore fortissimo) e aveva sperimentato all’età di 66 anni, nel 2008, una nuova forma comunicativa: quella del blog.
Il film è sorretto da una struttura classica, un’alternanza tra riprese degli ultimi mesi di vita di Roger durante il suo ultimo ricovero in ospedale, di interviste a colleghi, amici e familiari (tra gli intervistati anche Martin Scorsese, produttore esecutivo del film) e una gigantesca mole di foto e filmati d’annata a ripercorrere tutta la vita di Roger: la nascita a Chicago nel 1942, il debutto nel giornalismo scolastico e poi il college, l’approdo nel 1967 al Chicago Sun-Times, il giornale “popolare” della città fino ad arrivare alla svolta nel 1975: il premio Pulitzer alla Critica (primo critico cinematografico a ricevere la più grande onorificenza nel campo del giornalismo) e il debutto in televisione a fianco di Gene Siskel, giornalista del Chicago tribune, il quotidiano “di classe” delle rive del lago Michigan; Ebert, di estrazione cattolica, fisicamente molto imponente, estroso, sicuro di sé e viscerale. Siskel ebreo, longilineo, raffinato e ben in vista negli ambienti eleganti e mondani (e nella Playboy Mansion).
Entrambi, tuttavia, perfetti chicagoans che con la loro verve e un format semplicissimo -due persone sedute a parlare degli ultimi film vist-, nei loro numerosi programmi (la loro collaborazione si è interrotta solo alla morte di Siskel nel 1999) hanno reso filmabile e telegenico il dibattito critico sul cinema, con un approccio pop contrapposto all’intellettualismo newyorkese (nonostante entrambi fossero debitori di Pauline Kael) e al mondanismo hollywoodiano. Per anni i “due pollici in alto” sono stati la pressoché assoluta certezza di successo al botteghino per un film.
Viene illustrato in maniera delicatissima anche il problema più grande che Roger ha dovuto affrontare durante la sua giovinezza. l’alcolismo. Grazie a cui, tuttavia, ha conosciuto colei che in età già matura diventerà sua moglie.
Ebert ha all’attivo anche la sceneggiatura del 1970 di Beyond the Valley of the Dolls (Lungo la Valle delle Bambole) diretto da Russ Meyer (scritta solo per i soldi e per vedere donne nude, a detta sua).
Difficile immaginarsi il grande pubblico di tutto il mondo riuscire ad emozionarsi per la vita di un critico, soprattutto per via dello stereotipo che l’uomo comune ha di questa professione: un algido e mortifero uomo che gode delle proprie stroncature alla Anton Ego di pixariana memoria oppure un borioso e supponente ciarlatano. La spontaneità assoluta di Roger Ebert aveva contribuito, invece, ad abbattere questa pregiudizievole visione negli Stati Uniti, ma purtroppo all’estero erano in pochi ad averne sentito parlare.
Il regista Steve James riesce non solo a trasmetterci la grande autorevolezza e l’impatto mediatico di Ebert nel pubblico americano, ma anche a rendere l’umanità della sua sofferenza senza scadere nel patetismo. Nonostante non venga nascosto lo stato avanzato della malattia, la totale mancanza di autonomia, l’aspetto ormai ridotto rispetto all’imponenza di gioventù, i capelli radi rispetto alla folta chioma bianca già in età non troppo avanzata. La scrittura, anche su Internet, come ultima voce rimasta e come ultima maniera per perseguire la propria missione di divulgazione, verso le nuove generazioni. E quando Roger, ormai alle battute finali, non riesce nemmeno a rispondere all’ultima mail di Steve in cui chiedeva il motivo per cui la sua autobiografia fosse intitolata Life Itself, ci sembra quasi di dover dire addio ad un uomo che, nelle ultime due ore, ci era sembrato diventare un maestro assoluto, di cui vale la pena riscoprire la memoria e l’opera.
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