Un viaggio alla riscoperta della trilogia più importante della storia dell’animazione
Con l’uscita nel 1995 di Toy Story – Il Mondo dei Giocattoli, John Lasseter e la Pixar vincevano la sfida più importante nel mondo dell’animazione dai tempi di Biancaneve e i Sette Nani nel 1937. Un gruppo sparuto di persone, formatosi alla Disney e da lì fuggito, come in quegli anni avevano fatto Don Bluth, Tim Burton e Steven Lisberger (che con Tron aveva portato la CGI al cinema), decide di tornare, o meglio di collaborare con l’amata e odiata casa madre per realizzare l’impossibile. Un intero lungometraggio completamente realizzato al computer.
La gestazione del film nasce una decina d’anni prima, quando i ragazzi della Pixar, all’epoca una mera divisione tecnologica della Lucasfilm dedita alla realizzazione di animazioni pubblicitarie (essenzialmente per dimostrare la potenza dei computer) nel 1984 realizza The Adventures of Andre & Wally B., un bizzarro minuto di scontro tra un’ape e un umanoide. Più che altro due insiemi di cilindri che si rincorrono. Steve Jobs, cacciato dalla Apple da lui stesso fondata fiuta l’affare, acquista la divisione, che diventa uno studio indipendente. John Lasseter, Pete Docter, Andrew Stanton, Joe Ranft e altri ragazzi, insieme a Ed Catmull (cervellone della fisica con un grosso pallino dell’informatica e dell’animazione) realizzano una manciata di cortometraggi più o meno tutti con lo stesso leitmotiv: oggetti animati che mostrano emozioni e comportamenti umani. Red’s Dream parla di un monociclo che vorrebbe esibirsi al circo con un clown, Luxo Jr. vede una lampada padre e una lampada figlio che diventerà il logo dello studio, Knick Knack un pupazzo di neve souvenir che vuole fare conoscenza della sirena souvenir di fianco a lui sullo scaffale. Ma è Tin Toy, con un piccolo musicista di latta terrorizzato dal bambino a cui è stato donato, a scaldare i cuori di tutti e a far conquistare alla Pixar il suo primo Oscar. E soprattutto fornisce l’ispirazione per il loro primo lungometraggio. Non è un caso che John Lasseter, leader del gruppo e regista designato del Toy Story in divenire, è un avido collezionista di giocattoli: l’idea di vederli animati persiste nella testa degli animatori americani dai tempi di Midnight in a Toy Shop del 1930, e gli oggetti animati in generale hanno sempre avuto successo tra i più piccoli (in quegli anni incassava bene roba come Le avventure del piccolo tostapane).
Disney, che in quegli anni stava vivendo il suo periodo migliore della storia, inanellando un successo dietro l’altro, mirava anche a diversificare la produzione con film per la televisione e l’home video, ed esperimenti come Nightmare Before Christmas. I finanziamenti ci sono, ma i geni Pixar non hanno certo carta bianca: l’allora CEO Disney Jeffrey Katzenberg, voleva un film più adulto, scorretto, sboccato e arrogante. Per lui un film animato poteva essere o una storia d’amore alla Romeo e Giulietta (non che l’avesse mai davvero letto) o la quintessenza della scorrettezza. Per fortuna abbiamo avuto altro. Abbiamo Woody, cowboy di plastica e giocattolo preferito da Andy, re indiscusso della cameretta fino all’arrivo dell’astronauta Buzz Lightyear, che oltre ad essere un giocattolo estremamente moderno non è cosciente della sua natura.
Balza subito agli occhi la tematica principale di questo film e dei suoi meravigliosi sequel: il possesso. Il bambino possiede dei giocattoli, questi ultimi possiedono il bambino a loro volta. Woody detiene il potere e il rispetto, non vuole perderli. Buzz crede di avere delle doti e una responsabilità che in realtà non ha. Un immenso valore testuale in cui viene scalciata l’idea del mero esercizio di stile o dimostrazione tecnologica. Toy Story e i suoi protagonisti sono tremendamente umani nonostante la plastica, le batterie ossidabili e le stoffe sintetiche. Le basi per il futuro sono poste, abbiamo ottenuto un capolavoro e non ci resta che attendere il resto.
Quattro anni dopo John Lasseter, che nel frattempo aveva scavato una dimensione più piccola di quella dei giocattoli con gli insetti, riprende Woody e Buzz in un meraviglioso sequel (che tra l’altro rischiava di essere cancellato da ogni database per un errore, salvato da un impiegato che si era portato il lavoro a casa), in cui Woody viene trafugato da un appassionato di giocattoli per essere rivenduto a prezzi da capogiro con tutta una collezione dedicata a lui ad un museo. Buzz e gli altri vogliono riportarlo a casa.
Qui la maturità insidia l’innocenza, la speculazione mina la gioia infantile che lega Woody a Andy (orma la gelosia morbosa è superata), il trauma dell’abbandono (compiuto o da compiersi) è un incubo costante. Ma di certo, una teca non può consegnare un giocattolo all’immortalità più delle gioie regalate ad un bambino.
Ma i bambini crescono, sia quelli che hanno visto Toy Story negli anni sia Andy. E quando nel 2010 in Toy Story 3 – La Grande Fuga sarà Andy ad essere non più sfondo ma forza motrice delle vicende, Woody, Buzz e i pochi superstiti della gang, finiti per sbaglio in un asilo-lager, dovranno scegliere quali emozioni donare a chi: senso di possesso e nostalgia di un ragazzo ormai cresciuto oppure nuova gioia e nuovi ricordi ad una nuova bambina?
Questi personaggi che hanno preso per mano uno spettatore non ancora cresciuto, accompagnandolo verso un futuro ancora lontano, sono stati un esempio di coerenza emotiva e narrativa nel corso di questi quasi trent’anni, e ci avevano salutato con il più degno dei finali, che tuttavia lasciava spazio a piccoli spiragli. Le nuove avventure che hanno visto i nostri eroi protagonisti nei Toy Story Toons erano deliziose e naturali. Ma poi l’annuncio: Toy Story 4, uscito nel 2019 senza la regia di Lasseter (autosospesosi dalla Pixar per comportamenti inappropriati). Vincerà immeritatamente un Oscar al miglior film animato (dopo che il terzo capitolo era stato addirittura candidato a miglior film), mostra del coraggio e non è certo da buttare via, ma quel finale così tranchant ci priva davvero della possibilità di rivedere quei personaggi, e forse è davvero un peccato. Quanto a Ligthyear, meglio non esprimersi.
Lo spettatore ha, e continua ad avere, la possibilità di assaporare una delle trilogie più importanti e coerenti della storia del cinema, che hanno fatto immergere spettatori di ogni età in una meravigliosa epopea.
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