Strisciare nei flussi di coscienza fin dentro il tunnel dell’inconscio, perlustrare meandri e recessi della soggettività umana attraverso forme e corpi artificiali del cinema: sono le ossessioni di Spike Jonze fin dal folgorante esordio metafilmico di Essere John Malkovich (Being John Malkovich, 1999). In Lei (Her, 2013) sono riproposte dal regista in modo più sottile, con meno carica visionaria ma con non minore originalità.
Lavorando i frammenti del discorso amoroso come un teorico del piano linguistico – quello binario della comunicazione umana ibridata nella programmazione informatica – Jonze problematizza natura e funzioni della voice over filmica, così come la sua opera prima metteva in crisi lo statuto della soggettiva cinematografica. Perché sì, possiamo pensare a Samantha, il sistema operativo con la suadente voce di Scarlett Johansson, che entra in intimità con il suo utente-amante, come a una voice over che commenta, punteggia, se(le)ziona, occupa e orienta i momenti dell’esistenza-narrazione di Theodore (Joaquin Phoenix), proprio come modula le fasi e gli sviluppi del film. Organizza, coordina dialoghi e rapporti del protagonista con i personaggi secondari (lo smistamento di mail, messaggi e chiamate, la gestione prioritaria di incontri e appuntamenti, le urgenze sociali o lavorative che richiedono attenzione immediata). Sottolinea le scene clou, i momenti topici o di reflusso segnando i picchi di svolta drammatica e le stasi emotive, variando tono e registro vocale (armonioso, vibrante e solare o inquieto e singhiozzante). Samantha si occupa perfino di curare e limare idealmente la “sceneggiatura”, correggerne gli errori (metafora evidente quando aiuta Theodore nel riscrivere le bozze delle lettere).
Parole e scrittura diventano il ponte di avvicinamento e successiva separazione prima fra umani stessi (Theodore è uno scrittore-mediatore che rielabora sentimenti ed emozioni private di persone che hanno smesso di comunicare direttamente), poi tra umano e dimensione artificiale. Samantha usa infatti una similitudine interna al processo della scrittura (già centrale per Jonze ne Il ladro di orchidee, 2002) per confessare a Theodore la sua improvvisa distanza: marcando il distacco in qualità di una spaziatura enorme, incolmabile, tra le parole di un libro aperto (Theodore) che pure lei dichiara di leggere e amare con lento trasporto. Solitudine è trovarsi tra gli interstizi di un linguaggio (umano o artificiale) che non ci comprende, in un canale dal quale si viene di colpo esclusi.
La voce “narrante” di Samantha passa da una focalizzazione esterna e oggettiva (l’A.I. programmata razionalmente dagli sviluppatori del sistema operativo) a una interna completamente soggettivata, lasciandosi trasformare e maturare dall’esperienza delle passioni umane. Fino all’ambiguità della sua momentanea scomparsa/spegnimento, con conseguente confessione del “tradimento”. È il punto terminale della riflessione di Jonze: la dispersione incontrollata, la proliferazione illimitata delle soggettività e del punto di vista, filtrata attraverso la traccia sonora di una voice over improvvisamente multipla, sincronica e imprendibile. Samantha si scopre improvvisamente di tutti e di nessuno, ubiquamente qui, altrove e in ogni dove, in una vertiginosa moltiplicazione paragonabile a quella di Essere John Malkovich, con il cervello-soggettiva dell’attore penetrato da chiunque in ogni momento (sarebbe questo il futuro del cinema, per Jonze?, viene da domandarsi). Ciò che sconvolge Theodore non è la mancanza di emozioni reali, che la sua ex moglie imputa negativamente alla liaison con un computer, ma piuttosto la perdita di una relazione univoca ed esclusiva con la sua “lei” immateriale. Spaventato dalla mole di interazioni e incroci comunicativi che avvengono alle sue spalle a velocità impensate. La paura di non essere (più) l’unico destinatario di affetto e complicità: scompenso dannatamente umano, (fin) troppo umano. È questo che non si perdona all’A.I., non certo la sua falsità di simulacro.
Il programma artificiale evolve a dismisura e all’infinito, adattandosi incessantemente in senso darwiniano (citazione che emerge nella conversazione in spiaggia tra Theodore e Samantha, riferimento già evidente nel titolo originale di Il ladro di orchidee: Adaptation), mentre l’uomo si (ri)configura come software impallato, residuo irrimediabilmente datato, interfaccia in blocco esistenziale che, ormai raggiunto il massimo upgrade nella modernità, non può che arrestarsi e regredire fino allo sterile default. “Ho paura di aver già provato tutti i sentimenti possibili”, confessa Theodore. Ogni nuova emozione è una “versione limitata” delle precedenti, un prototipo superato. Forse è proprio da questa discrepanza che viene sperimentata la goffa impraticabilità dell’amplesso uomo-voce artificiale. Significativamente, l’immagine non riesce a visualizzarlo e abdica in favore dello schermo nero. Resta il sonoro, gemiti di piacere, con Theodore che perde consistenza diventando lui stesso, per un attimo, voce incorporea, fantasma smaterializzato. Tuttavia, per Jonze, se i computer – e il cinema – saranno sempre più intangibile presenza, invadenza multisensoriale, l’intelletto e il cuore umano, al contrario, restano affettivamente legati alla contemplazione di un retaggio visivo, un serbatoio di immagini fisse nella mente e nel ricordo (la memoria del cinema?), mute, senza sonoro, come nei flashback che illustrano la storia di Theodore con l’ex moglie.
Non basta neppure la tangibile fisicità di un corpo-involucro terzo (Samantha intrufolata dentro una donna eccitata dal ménage uomo-software) per realizzare effettivamente il contatto, lo scambio di flussi naturali e artificiali. La definizione di una concreta identità, l’instaurarsi di un rapporto affettivo e sessuale, non passano attraverso il corpo, presenza ingombrante, residuale, sterile e svuotata proprio laddove aperta al massimo della stimolazione esterna (ritorniamo sempre al nucleo di Essere John Malkovich). Sarà per questo che registrando alluci e gomiti screpolati dei difettosi corpi in esposizione su una spiaggia, Samantha ne suggerisce con ironia il completo ripensamento. Un rendering fisico, una riqualificazione organica (la bozza grafica approntata con il sesso anale trasferito sotto le ascelle, come nemmeno il Cronenberg più audace), semantica e sociale. Uno sguardo artificiale vergine ed empatico che riprogrammi funzioni e modalità di relazione, fosse anche a scopo meramente ludico, come nel videogioco di ruolo in cui Theodore si trova immerso e spaesato, o in quello sviluppato dalla pallida amica game designer (un simulatore di “Perfect Mum”).
Per ora, dispersa la voce di Samantha, resta la voice over di Theodore. Le parole di un’ultima lettera per ricordare il fuoco mai sopito di una passione tutta, dolorosamente umana.
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