In occasione del centenario della major Warner, torna nelle sale Le ali della libertà, capolavoro del regista Frank Darabont del 1994. Basato sul racconto breve Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank di Stephen King (edito nella raccolta Stagioni diverse del 1982), il film di Darabont è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi film di tutti i tempi: attualmente, è primo nella classifica dei duecentocinquanta migliori film della storia di IMDB, sulla base di 2,7 milioni di voti; il secondo, per intenderci, è Il Padrino (Francis Ford Coppola, 1972).
Il percorso di redenzione di Andy Dufresne (Tim Robbins), all’interno delle mura del carcere di Shawshank, è un cammino che trascende i particolarismi della storia ideata da Stephen King e adattata, per il grande schermo, da Frank Darabont. Condannato per duplice omicidio, pur dichiarandosi innocente, Andy viene incarcerato a Shawshank, nello stato del Maine: nonostante le violenze perpetrate dalle guardie e dal direttore Norton, Andy inizia a inserirsi in un gruppo di detenuti, stringendo una feconda amicizia con Red (Morgan Freeman).
Dal racconto al film
Nel 1982, la popolarità di Stephen King, il Re dell’Horror, è già assodata: in quell’anno vedono la luce il romanzo breve L’uomo in fuga (con lo pseudonimo di Richard Bachman), L’ultimo cavaliere, primo romanzo fantasy della serie La Torre Nera, e la seconda antologia di racconti dello scrittore dopo A volte ritornano (1978), Stagioni diverse. Quest’ultima, costituita da quattro novelle corrispondenti alle quattro stagioni, ha ispirato tre diversi adattamenti: il primo, tratto dal racconto Il corpo, è diventato Stand By Me – Ricordo di un’estate (1986), diretto da Rob Reiner; l’ultimo è L’allievo (Bryan Singer, 1998), tratto dal racconto Un ragazzo sveglio.
Nel 1994, per il suo debutto dietro la macchina da presa Frank Darabont sceglie il primo racconto dell’antologia, Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, e mantiene solo la seconda parte del titolo per l’adattamento cinematografico (appunto, The Shawshank Redemption, modificato in Italia in Le ali della libertà). Dopo il suo unico cortometraggio, The Woman in The Room (1983), Darabont si cimenta in un lungometraggio della durata di due ore e ventisei minuti: così come nei successivi adattamenti kinghiani – Il miglio verde (1999) e The Mist (2007) – l’obiettivo del regista è un’aderenza quasi maniacale al testo originale, le cui poche modifiche risultano assolutamente giustificate e coerenti, sia nell’economia del racconto cinematografico, sia nella prospettiva di coinvolgimento del pubblico.
Come abbiamo avuto modo di ricordare poc’anzi, Le ali della libertà è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi capolavori della storia del cinema: eppure, è anche noto come, all’uscita nelle sale, il film sia stato un flop al botteghino, incassando appena 18 milioni di dollari, a fronte di un budget di 25 milioni. Invero, sono state le sette candidature ai Premi Oscar (tra cui Miglior Film) a convincere la Warner a ridistribuire il film di Darabont; oltre a questa scelta vincente, è stato anche il mercato dell’home video a decretare il successo del film.
Nonostante tutto, Le ali della libertà non ha conquistato nessuna statuetta durante la notte degli Oscar del 1995: la “sfortuna” di Darabont è stata quella di ritrovarsi, come film candidato, un altro capolavoro cinematografico, Forrest Gump (Robert Zemeckis, 1994); la stessa malasorte si è registrata nel 2000, quando il suo Il miglio verde non ha conquistato nemmeno una statuetta su quattro candidature, vedendosi beffato da un altro cult movie, American Beauty (Sam Mendes, 1999). Così come Thomas Newman – compositore per Le ali della libertà e Il miglio verde, candidato per quindici volte agli Oscar – Frank Darabont viene considerato tutt’oggi una delle eterne damigelle degli Academy Awards.
La proverbiale pazienza di Andy Dufresne
Senza svelare il turning point del film di Darabont, è evidente, sin dall’incipit, come la figura cardine dell’intero impianto narrativo sia Andy Dufresne. Vice-direttore di una banca di Portland, Dufresne viene condannato a due ergastoli per quello che sembra un duplice delitto perfetto, confezionato a dovere dal movente della gelosia. Eppure, fin da subito lo spettatore non crede alla sua colpevolezza: nonostante Andy sia un uomo introverso, la sua bontà d’animo e la sua cordialità verso gli altri detenuti (si prodiga per ampliare la biblioteca carceraria) sono in disaccordo con la personalità di un killer a sangue freddo.
In questo senso, l’attore Tim Robbins restituisce appieno la personalità pacata e il comportamento misurato di un uomo appartenente alla classe medio-borghese degli anni Quaranta: pur dinanzi alla condanna senza apparente assoluzione, l’Andy di Robbins è un uomo intelligente, ragionevole, e le sue parole, così come le sue azioni, sono calcolate fino al midollo. La sua reclusione diventa, allora, un mezzo per la redenzione: ma quale? Darabont non lo spiega apertamente nel corso del film, ma utilizza espedienti e personaggi per palesare la sua risposta dai contorni indefiniti: il regista – così come Stephen King – narra la redenzione di un uomo che aveva dimenticato l’importanza della libertà; Andy Dufresne, intrappolato in un monotono lavoro, in un matrimonio svuotato dell’amore che l’aveva sancito, comprende che a Shawshank è possibile, per lui, riscoprire il valore della libera scelta, dell’autodeterminazione umana.
Andy sfrutta l’occasione per riflettere sulla propria esistenza, pur mantenendo fede al patto stretto con sé stesso – ossia, mantenersi un uomo libero. Tuttavia, la proverbiale pazienza di Dufresne viene costantemente minacciata dal pericolo di essere istituzionalizzato, di non potersi più pensare come un individuo libero: esemplare, in questo senso, è la condizione di Brooks, highlander di Shawshank che non riesce ad affrontare la vita fuori dalla prigione quando viene rilasciato per buona condotta.
Red e il microcosmo di Shawshank
Pensarsi liberi pur restando all’interno delle mura di una prigione è affare non da poco: ne è testimonianza Red (Morgan Freeman), migliore amico di Andy giunto a Shawshank da giovanissimo per scontare un ergastolo. Red è il rappresentante del piccolo microcosmo di carcerati che popolano la prigione del Maine: ognuno col suo ruolo, con la propria esperienza e reputazione, i detenuti si adattano, a poco a poco, ai ritmi e alle regole di Shawshank, nonché a subirne le violenze. Così come ne Il miglio verde, Frank Darabont è abilissimo nel ricostruire l’ambiente carcerario americano degli anni Trenta e Quaranta: l’atmosfera intrisa di polvere e la calura estiva sono costanti del dittico carcerario diretto da Darabont, così come la volontà di restituire il carattere umano dell’ambiente stesso.
Il personaggio di Red, in questo senso, funge da alter ego di Andy Dufresne: giunto a Shawshank prima del banchiere, egli ha guadagnato una solida reputazione come “quello che procura oggetti d’ogni tipo”; i suoi primi anni in prigione non vengono narrati, ma certamente non saranno stati così diversi da quelli (terribili) vissuti da Andy. Quest’ultimo, inseritosi in un gruppo di detenuti, raccoglie l’insegnamento di Red e anch’egli si conquista una posizione a Shawshank, sfruttando le sue abilità di banchiere, a partire dalla stesura della dichiarazione dei redditi per le guardie.
Ma Red non è solo un comprimario nella storia di Andy: sia nel film che nella novella di King, Red è il narratore dell’intera vicenda sin dall’arrivo del protagonista a Shawshank; la sua narrazione, sarcastica e diretta, contribuisce a rendere il racconto filmico intenso e coinvolgente. Red è spettatore delle molte vicende che compongono la lenta quotidianità del carcere del Maine, mantenendosi costantemente in bilico tra la volontà di ottenere la libertà vigilata – da anni viene convocato da una commissione che possa giudicare la sua “redenzione” – e il timore verso il mondo là fuori: sì perché la società muta, Shawshank resta la stessa; usi e costumi si modificano con lo scorrere inesorabile del tempo, mentre dentro le mura della prigione gli anni passano senza essere compromessi dall’esterno.
La libertà di sentirsi liberi
Le ali della libertà si inserisce perfettamente nel filone dei film ambientati entro le mura carcerarie. Da Papillon (Franklin J. Schaffner, 1973) a Fuga da Alcatraz (Don Siegel, 1979), questi ritratti intensi delle carceri (non solo americane) sono capaci di coinvolgere lo spettatore per l’universalità dei temi trattati: fra tutti, la ricerca costante e imperterrita della libertà, elemento che caratterizza, fra gli altri, film divenuti veri e propri cult della storia del cinema, come La grande fuga (John Sturges, 1963), Fuga di mezzanotte (Alan Parker, 1978) e Fuga per la vittoria (John Huston, 1981).
Dal canto suo, Le ali della libertà è pienamente cosciente della tradizione di film carcerari che lo precede, e fa propri alcuni meccanismi empatici volti a coinvolgere il pubblico. Tuttavia, l’impianto complessivo del film (in cui spiccano la matrice letteraria, la sceneggiatura e il comparto attoriale) ha contribuito a rendere il medesimo un cult movie indimenticabile che, a distanza di quasi trent’anni, ritorna nelle sale cinematografiche per celebrare l’arte di saper fare cinema.
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